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Di Alice Nebbia
Aldo Bonomi è sociologo di fama internazionale, fondatore e direttore dell’istituto di ricerca Consorzio AASTER.
Nel corso degli anni ha mantenuto al centro della sua ricerca le dinamiche antropologiche ed economiche dello sviluppo territoriale. È stato consulente della Presidenza del CNEL, ideatore e curatore di mostre esposte presso la Triennale di Milano, relative a temi riguardanti le trasformazioni urbane ed extraurbane. Fondatore e direttore del periodico Communitas, scrive e collabora per diverse e significative testate nazionali ed è autore di numerose pubblicazioni.
Professor Bonomi, da dove parte la Sua ricerca?
«Con il mio lavoro di ricerca sociale e territoriale, ero arrivato, ancor prima della piaga di Covid-19, a ragionare molto sul concetto di comunità e non mi ero nascosto il fatto che non tutte le comunità sono buone in sé. Esistono comunità che non sempre producono prossimità e vicinanza, come dovrebbe essere il loro scopo, ma generano livore e lontananza. Queste io le definirei comunità di rancore. Pensiamo al tema dell’immigrazione. A tale proposito, ho scritto alcuni anni fa, in collaborazione con l’assessore Majorino, un testo intitolato Nel labirinto delle paure, che riflette sulla comunità del rancore e di come questa si rinchiuda nella paura dell’altro da sé».
Che cosa s’intende per comunità di cura?
«Per comunità di cura si fa riferimento a tutto ciò che produce prossimità e solidarietà verso l’altro. Il mondo del volontariato, l’associazionismo, i gruppi di mutuo aiuto o la vostra comunità, ilBullone, sono esempi positivi di comunità di cura. Tuttavia tale concetto può essere esteso e si può parlare di comunità di cura più allargata».

Quali possono essere gli esempi di una comunità di cura allargata?
«In un periodo difficile come quello che stiamo vivendo, un medico che fa con coscienza il proprio lavoro, un docente che porta a compimento la sua missione di educare i giovani con la didattica a distanza, o un dipendente di un supermercato che in questi mesi non ci ha mai fatto mancare il cibo, sono tutti esempi di quella che io definirei comunità di cura in senso lato. Anche il sindacato dovrebbe essere una parte della comunità di cura, per occuparsi non solo di coloro che sono nelle fabbriche, ma anche di quelli che sono al di fuori, che vivono nella precarietà e nel disagio».
Che cosa ci lascerà l’esperienza del Coronavirus e cosa invece perderemo?
«L’esperienza del Covid-19 ha fatto e ci sta ancora facendo capire che il cambiamento è necessario e parte sempre dalla società in cui viviamo. Auspico che resti in noi, dopo l’esperienza del Coronavirus, anche un maggior senso di comunità, di desiderio di sperimentazione di nuove forme di comunicazione e di lavoro. Pensiamo allo smart-working che abbiamo conosciuto in questi mesi, ai digital angels, figure fondamentali che in questi mesi hanno aiutato le persone più anziane ad avere una maggiore familiarità con le tecnologie. Dovremo portare queste figure anche nelle imprese per creare una maggiore vicinanza e comunicazione tra la realtà analogica e la realtà virtuale. Spero, ma non ne sono sicuro, che si perda, invece, la dimensione della comunità del rancore verso l’altro da sé, che non porta nulla di produttivo al nostro vivere».
Come sarà possibile, post Covid-19, coniugare il vecchio e il nuovo modo di fare economia, alla luce di tutte le tematiche e le criticità emerse in questo periodo?
«Al di là del Coronavirus, alcuni temi erano già stati sottoposti prima alla nostra attenzione. Ad esempio, tutti avevamo iniziato a ragionare in merito alla crisi ecologica, al concetto di green economy, a un modello positivo che fosse in grado di incorporare la tutela della natura e dei corpi. Nel nostro vivere quotidiano, ritengo coesistano tre faglie: la prima, quella analogica-digitale; la seconda riguardante la sfera della fisicità e dell’immaterialità e la terza relativa alla dimensione del locale e del globale. Riuscire a creare un modello di ricostruzione che sappia porsi al centro di queste differenti realtà, è la sfida per il nostro futuro».
Un’ultima domanda riguarda la dimensione del tempo, così completamente sconvolto in questi mesi. Cambierà in futuro il nostro rapporto con il tempo?
«Sì. Credo saremo in grado di superare la dimensione del presentismo alla quale eravamo soliti e costretti. Un presentismo che non aveva né un passato né un futuro. Ora è tempo di costruire un nuovo presente, con la memoria del passato, per pensare a un nuovo futuro».
