Le riflessioni dei cronisti del Bullone su questi giorni di dolore e sull’incognita del dopo Coronavirus. Che cosa ci lascerà? Non sarà più come prima. Cambierà il modo di fare lezione. La distanza e la tecnologia modificheranno i rapporti professore-studente.
Di Alessandra Parrino
La connessione scarseggia, telecamere spente e microfoni in muto; un’ora di lezione che sembrano quattro, professori che si improvvisano grandi informatici e studenti che devono fare i conti con l’invio di una mail.
Ecco com’è diventata la scuola oggi: arrangiarsi, cercando di far sembrare tutto il più normale possibile.
Ma davvero l’istruzione può essere compensata dalla didattica a distanza?
Forse solo in parte, perché nell’arte dell’insegnamento ci sono tante regole che entrano in gioco. Ad esempio, i rapporti umani, quelli con i compagni, con gli insegnanti. La didattica a distanza ha però permesso anche a tanti studenti di togliersi le maschere che spesso indossano a scuola e fa emergere la loro parte più profonda. Alcuni riescono a scrivere in maniera più personale, sono più presenti in quello che fanno.
L’altra faccia della medaglia, quella che ci sta facendo rendere conto delle mancanze della scuola, è quella della discriminazione, perché questo tipo di insegnamento è più discriminatorio. Lascia indietro chi già aveva difficoltà a stare al passo, e chi non può permettersi tutte le agevolazioni della società moderna, lascia indietro i ragazzi che hanno più fratelli e un solo schermo per seguire le lezioni.
Sono più di 1,6 milioni i bambini e ragazzi che non riescono a proseguire l’anno con le strutture e le tempistiche che meritano, che vengono lasciati indietro da un sistema che ora vacilla.
Allora viene spontaneo chiedersi come sarà dopo, come possiamo affrontare il rientro e il futuro, se vaghiamo a stento in questo presente…
Sicuramente ci saranno dei gap da colmare, a partire dai più banali, come aiutare i ragazzi e le loro famiglie ad avere una migliore padronanza dei mezzi di comunicazione di oggi, che vanno oltre i social network o il cellulare.
La scuola dovrebbe uscire dai suoi schemi, aprendosi a un dialogo con le famiglie. Perché un ragazzo non cresce solo per le cose che può assimilare, ma anche perché queste lo aiutano a realizzarsi, a trovare il suo ideale di vita. Ad oggi questo dialogo è inesistente, eppure inizieremo un nuovo anno scolastico con ragazzi che non riconosceremo più e non sapremo mai se sono cresciuti o meno, se non lo chiediamo a chi, in questo periodo, li ha avuti in casa costantemente.
No, la scuola non può essere solo programmi da rispettare alla lettera e voti e giudizi finali. Siamo indietro perché pensiamo ancora che un dieci in pagella significhi un gran cervello e un sei tirato parli di chi non ha voglia di fare nulla. La scuola deve appassionare, deve far crescere le aspirazioni, i sogni e se ci fermiamo a un voto, ahimè, abbiamo perso.
Abbiamo bisogno che la scuola ci chiami a percorrere nuove traiettorie per sfruttare al meglio la creatività del singolo, per far rifiorire l’insieme.
In questo incerto oggi c’è Giulio che ogni mattina prendeva il suo tavolino e seguiva le lezioni in mezzo ai campi perché in casa non aveva la connessione e ora, grazie alle persone che ha incontrato, può semplicemente svegliarsi e accendere il pc da casa. Ma Giulio ha qualcosa che alle volte dimentichiamo: la passione, lui vuole sapere e scoprire, vuole capire come realizzare i propri sogni e il fatto di non essere connesso, non lo poteva fermare.
Questo non può essere insegnato ai ragazzi, va ricercato, perché ognuno di loro ha dentro di sé la voglia di apprendere, non per essere i migliori, ma per essere se stessi nel miglior modo possibile.
Fateli svegliare alle sette di mattina questi nuovi adulti, anche se sbuffano, anche se lo zaino è troppo pesante; la schiena la raddrizzeranno quando sapranno di aver imparato l’arte della vita.