La storia di Alessandra Parrino

Autori:
Alessandra Parrino, illustrazione di Chiara Bosna

Ciao, sono Alessandra, ho 22 anni e dal 13 Marzo del 2017 nella mia vita è iniziata una strana partita

Per poterla raccontare devo tornare un po’ indietro, partendo da Dicembre del 2016. Frequentavo il corso di “Ingegneria per la sicurezza del lavoro e dell’ambiente” all’ università di Varese, e il mese di dicembre, quando sei un universitario, è quello dei primi parziali.

Quando sei al terzo anno di una triennale questo periodo è anche quello delle scelte in cui viene delineato un percorso e il mio lo avevo ben in testa: a Gennaio gli esami, a metà febbraio l’inizio del tirocinio e a luglio la laurea. A settembre mi vedevo già proiettata a Bologna per poter continuare gli studi.

Mentre mi preparavo per gli esami, l’influenza aveva deciso di farmi visita e con essa una serie di sintomi «diversi» dai soliti. Però nessuno diede loro molto peso, o meglio, quasi nessuno, perché il mio medico aveva capito che qualcosa “non andava proprio nel verso giusto“. Così, passa quel mese e sembro guarita.

Sembro: la parola chiave

Dopo dicembre e le feste, arriva però gennaio e con esso torna tutta la mia routine quotidiana: lezioni, studiosport. Proprio lo sport, nel mio caso giocare a calcio, ha fatto sì che i sintomi si ripresentassero e che quindi, una dottoressa meravigliosa iniziasse a prendersi cura di me, alla ricerca di una malattia fino a quel momento senza nome. Così da gennaio a marzo ho fatto una quantità di esami assurdi alla ricerca di malattie sconosciute: «Potresti avere il graffio di gatto, prova a fare gli esami!». Il graffio di gatto? La mia mente non si è posta nemmeno la domanda su che tipo di malattia fosse, perché mi sembrava tutto ai limiti della realtà.

Il 5 marzo, durante l’ultima partita che ho giocato, ho iniziato a sentire dei dolori che, in tutta quella serie di sintomi , mi mancavano all’ appello, come rappresentassero un campanello d’allarme, per avvertire che il confine tra bene e male era molto sottile.

La chiamata che cambia la vita

Il 7 marzo ho ricevuto una chiamata urgente dall’ ospedale, ma nella mia testa non si era creato ancora nulla di così grande per non poterlo affrontare da sola, così mi presentai dalla dottoressa. Lei con una gentilezza e tenerezza infinite mi disse che la mia malattia poteva essere un linfoma e che non avrebbe potuto curarmi, sarei dovuta andare in un altro reparto. Così, con il mio bollino verde tra le mani, conoscendo ormai bene la collocazione di tutti i reparti dell’ospedale, mi sono recata in ematologia, un po’ spaesata.

Nell’ arco di 10 minuti mi sono trovata in una stanza con cinque dottori e il primario che mi ripeteva: «Domani devi tornare qua e mi raccomando non correre, non giocare a calcio, non sforzarti». Io non capivo, ma la seconda parte della frase mi è stata ripetuta talmente tante volte da farmi pensare che avevo raggiunto un punto critico. Solo più tardi, con molta dolcezza, un’infermiera mi spiegò che la causa del mio dolore, la domenica precedente, era legata ai linfonodi. Ormai troppo gonfi, durante lo sforzo, avevano rischiato di causarmi problemi ben più gravi andando a ridurre lo spazio di movimento del cuore.

Finalmente la diagnosi

Ironia del destino, l’8 marzo sono stata ricoverata nell’ attico del sesto piano.Ho aspettato cinque giorni per avere notizie, fino a quando il dottore mi ha chiesto di seguirlo nel suo studio. Mi ha fatto sedere («Hai 21 anni, hai diritto di sapere per prima e da sola come stanno le cose») e mi dice: «Volevo anticiparti quello che poi dirò domani insieme ai tuoi genitori. La diagnosi della tua malattia è Linfoma di Hodgkin». 

Come ci si dovrebbe sentire dopo questa notizia?

All’ inizio mi sono sentita quasi sollevata perché la mia malattia aveva un nome. Poi il nome stesso mi ha svuotata: non ero triste, arrabbiata, impaurita. E’ stato come se la mia stessa anima avesse bisogno di una boccata d’aria lasciandomi lì sul letto con la flebo al braccio. Quella notte insonne ha avuto un momento di luce a illuminare il buio che stava prendendo vita dentro. Nelle mie orecchie è partita una canzone durante la riproduzione casuale «A modo tuo», il suo testo mi ha ricordato chi ero, le persone che mi circondavano, ciò che ogni mattina mi faceva uscire di casa con il sorriso anche quando la stanchezza era tanta.

E lì, in quell’ istante, dentro di me si è accesa una luce che ha portato il cuore a prendere parola sul cervello imponendogli una sola regola tra tutto il caos che lo sommergeva in quel momento: per quanto forte sarà la tempesta, per quanto buio possa essere il percorso, l’affronteremo con tutto l’amore e tutta la luce che riusciamo a trovare. Di luce ce n’è davvero tanta quando impari a guardarti intorno. Io l’ho trovata tra i ragazzi dell’oratorio, gli amici di sempre, le mie compagne di squadra e nel supporto costante della mia famiglia; tutti loro mi hanno permesso di illuminare anche le notti che sembravano non finire mai.

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La mia regola d’oro

In quella notte tra il 13 e 14 marzo mi sono imposta una regola che oggi mi permette di scrivere ricordando con più facilità tutto il bello che mi ha circondato nella malattia. Così facendo il mio inconscio aveva sviluppato l’idea che voleva portare la malattia nella normalità della mia vita, nonostante la paura che il periodo a cui dovevo far fronte potesse cambiarmi in modi che non sentivo miei.

Dopo le prime terapie, il primo sconcerto generale, ho iniziato a mettere in ordine il caos e la tranquillità consisteva nel poter continuare a studiare, anche se la laurea a luglio era diventata un traguardo impossibile. Ho pensato che potevo portare la mia normalità in ospedale, ragion per cui avevo sempre con me i quaderni per studiare, e mi ritrovavo così su una poltrona del day hospital a ricevere chemioterapici per far star bene il mio corpo e a scrivere o ripetere per far star bene la mia mente.

Approfittavo di quel giorno, mentre mi venivano somministrati i farmaci e prima che gli effetti si facessero sentire, per portarmi avanti con lo studio, perché per tutta la settimana seguente non sarei stata in grado di fare niente.

In maggio mi è stata data la notizia che le cure non stavano funzionando completamente e che avrei dovuto passare alla seconda linea delle terapie, cioè altri quattro cicli di chemio con farmaci diversi, per arrivare all’autotrapianto avvenuto in ottobre. In quell’ occasione sono stata ricoverata per un mese in una stanza sterile dove poteva entrare una persona per volta, soltanto negli orari stabiliti. Dopo la terapia ad alte dosi ero talmente stanca che passavo le mie giornate dormendo, senza neanche riuscire a vedere un programma intero in televisione.

Chi la dura, la vince?

Quando sono uscita dall’ospedale era l’inizio di novembre e mi sono organizzata per scrivere la tesi, nonostante la debolezza che mi imponeva continue pause. Questa testardaggine, nel voler portare a termine la mia laurea entro la fine del 2017, ha fatto sì che la prima parte del mio cammino universitario giungesse al termine proprio nel mese di dicembre.

Mentre scrivo queste righe ho concluso gli esami di rito a cento giorni dall’autotrapianto e posso affermare con fierezza che questa battaglia l’ho vinta io. A 22 anni, come a qualunque età, non te lo aspetti il cancro, ma se arriva non ti dà alternative: tutto o niente, bianco o nero. Così ci si ritrova come equilibristi su un filo sottile tra la vita e la morte, con una sola possibilità: andare avanti, andare oltre attaccati a quella voglia di vivere che abbiamo dentro.

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