È il momento di ripartire. Si deve cambiare prospettiva arricchendola con gli altri. Mai più soli. Il Bullone ha intervistato dei grandi testimonial di vita e di sapere per indicarci la strada giusta. Qui sotto il colloquio con il filosofo e docente Silvano Petrosino.
Di Fiamma Colette invernizzi
«Usciresti a cena con Willi il Coyote o con Beep Beep?» mi chiede, a chiusura dell’intervista. Sorrido, il cervello che straborda di riflessioni. Silvano Petrosino, filosofo e docente universitario milanese, l’ho scoperto anni fa, imbucandomi in un suo ciclo di lezioni in Cattolica. Raccontava di Cappuccetto Rosso per spiegare la seduzione del male e di Biancaneve per esplorare la crescita e la consapevolezza del sé nel mondo femminile.
Oggi, con lui, parlo di epidemia. «Non riesco a pensare a nulla di più appropriato del termine imprevedibile», mi dice, la voce ferma. «L’irruzione dell’imprevisto in un primo mondo occidentale come il nostro, che fonda il suo io – perlopiù economico – sull’analisi dei dati e della statistica, rende manifesto il concetto che il tempo che ci attende contiene al suo interno una componente di imponderabilità: l’avvenire». Parla piano, lui, calmo, con la consapevolezza di chi sa dare il giusto peso a ogni parola. Dall’etimologia non si scappa e si rifugge l’uso semplicistico di sinonimi o di termini inappropriati. L’avvenire non è il futuro. «Il futuro è necessariamente legato al presente», continua lui, «perché esso è sempre il domani di un determinato oggi. Non potrebbe essere altrimenti: quando noi progettiamo un’iniziativa futura, non possiamo far altro che partire dal presente in cui viviamo, vale a dire dalle nostre idee, sogni, speranze ed ipotesi. È a partire dall’oggi che pensiamo al domani e, ancor di più, è a partire da ora che progettiamo (o cerchiamo di pre-vedere) il poi. Pro-gettare, lo dice la parola stessa, vuol dire gettare qualcosa in avanti, nel futuro. All’opposto, invece, l’avvenire è precisamente ciò che non può essere pre-vistoo pro-gettato. In direzione dell’avvenire non possiamo gettare nulla. L’avvenire è il campo dell’evento, dell’avvenimento, di ciò che accade e lo fa senza avvisare».
L’innamoramento, penso io. La malattia, anche. O i terremoti o le epidemie. Gli eventi che non pianifichiamo e che nella nostra consapevolezza di esseri finiti e mortali, entrano piacevolmente o terribilmente inattesi. E come si convive con questa incertezza?, chiedo ad alta voce. «È impossibile pensare di mettere in sicurezza la vita dell’uomo», prosegue il filosofo, «al massimo metti in sicurezza un edificio, un ponte o una strada. Nell’esistenza umana non si può fare a meno di entrare in contatto con elementi di avventura, a volte negativi, a volte positivi. L’innamorarsi, ad esempio. E qui la storia ci viene in aiuto, se pensiamo a tutti quegli studiosi e teologi che, nell’antichità, per paura di uno sconvolgimento legato alla pulsione sessuale che li avrebbe condotti lontano dall’ora et labora, si sono castrati. Tutto per sentirsi tranquilli e per mettere in sicurezza lo studium del verbo biblico. Ma io dico, per paura della distrazione, della malattia, del fallimento, possiamo forse castrarci?». No, certo che no, penso. Eppure succede, eccome se succede. Allora questo è il punto: riconoscere il valore del progetto e della sicurezza, ma non trasformarli in un tutto, accogliendo l’idea che ci sia dell’altro. Altro. Alterità. Ciò che non sono io, ciò che non è il mio futuro progettato, ciò che non posso mettere in sicurezza e che non posso calcolare.
E in questa pausa, in questo vortice di pensieri, nella bellezza della lingua italiana, non riesco a fare a meno di pensare a quanta sicurezza ci diano le espressioni letterali che si esprimono con la matematica: lo metto in conto, ne tengo conto, come se effettivamente potessimo dare una risposta numerica all’imprevedibilità dell’avventura umana. «Facciamo un gioco», mi propone Petrosino, divertito, «se io ti chiedessi quanto sei alta o quanto pesi, tu mi risponderesti con un numero preciso, esatto. Useresti la scienza. Ma che cosa accadrebbe se qualcuno ti chiedesse se lo o la ami? Tu inizieresti a parlare. Sfrutteresti il verbo, la lettera. Ecco, l’errore in cui si cade troppo facilmente, oggi, in questo nostro primo mondo governato dalla tecnologia, è quello di interpretare l’umano nella sua complessità solo con i numeri. Questo è il rischio: ridurre l’umano a un numero. Dimenticandosi dell’altro. E non possiamo pensare che, non avendo valore veritativo scientifico, allora questo altro non sia esatto. Nessuno potrà mai dire a un essere umano che il suo amore non è corretto, giusto o vero. La verità dell’amore non è riducibile con l’idea di esattezza. Il pericolo che vedo è che sotto l’impulso dei successi della scienza, si riduca la verità all’esattezza». Questi mesi pandemici ne sono stati un’espressione evidente. Da un lato il numero di contagi, le percentuali di guarigione, le previsioni matematiche di diffusione, le curve numeriche e le stime temporali, dall’altro l’essenza umana della malattia, la solitudine, il contatto, la lotta, il desiderio e la mancanza, la sofferenza e il sollievo. Mondi separati, il numero e la lettera, la scienza dell’esattezza e l’imprevedibilità imperfetta dell’umanità. Velocità opposte, universi paralleli. Innovazione tecnologica e riscoperta biologica dell’umano, nella sua meraviglia e nei suoi limiti. «Se c’è qualcosa che la cultura del nostro primo mondo non rispetta», afferma lui, «è in verità proprio il limite. E io ci tengo a distinguere profondamente, in relazione con questo concetto, due parole: ricevere ed accogliere. Possiamo ricevere senza accogliere, pensaci. Se mi danno una multa io la ricevo ma di certo non la accolgo. Anzi, mi innervosisco e quasi la rifiuto, la rigetto. Soprattutto perché riceverla non mi porta a niente, potrei dire che quella multa non feconda niente.
Mentre il limite può andare ben oltre, può – di nuovo – condurre ad altro. Può chiamarmi a ri-decidere, a ri-pensare. Oggi siamo tristemente abituati a non soffermarci, a non riflettere e nemmeno a rispettare questo tema così importante. È proprio il verbo rispettare ad avere un’etimologia meravigliosa, che riprende i concetti di fermarsi e guardare indietro. Se il limite non si rispetta, allora non lo si feconda. Anzi, oggi troppo spesso lo si intende solo come un fastidio o come una sfida. Niente di peggio! Accoglierlo, sarebbe la scelta più saggia». Ascolto con attenzione Silvano Petrosino parlare di Dante e di Ulisse – del sommo poeta e della sua scelta di collocare uno dei più famosi marinai e avventurieri della storia umana nell’inferno, non per la sua smania di superamento del limite, ma per la sua negligenza a portare tutta la ciurma con sé – e penso di essere grata per questo momento, contenta di parlare con un vero filosofo, vero amante della conoscenza e suo sublime narratore. «L’agire dell’uomo che riconosce il limite è sempre più fecondo», mi dice. Ho un sussulto. Ha davvero ragione. Ma come si insegna, questo?, gli chiedo senza che possa terminare la frase. Ho esigenza di saperlo. «Hai posto una grande domanda. Il problema è che richiede del tempo. La fecondità tu non la vedi adesso, al contrario del successo che percepisci subito con una medaglia, con un titolo o con un aumento. La fecondità si vede nel tempo. Qui ti porto un ultimo binomio: il seduttore e il maestro. Il primo chi è? È colui che ti garantisce il godimento ma non ti rende fecondo. Noi siamo sempre attratti dal seduttore, così come dal sistema consumistico in cui siamo immersi, che ci porta delle continue striscioline di soddisfazione. Ma dell’incontro con il seduttore non ti resta niente.
Il maestro, invece, è colui che ti rende fecondo e per questo a volte ti chiede di rinunciare al godimento. Il dono del maestro lo ritrovi anni dopo, quando ti ricordi quella lezione del liceo o dell’università, quel libro che ti era stato consigliato e non sapevi il perché». Sento commentare il grande eroismo della vita e la meraviglia dell’avventura umana e mi sorridono i pensieri. In un momento come questo, di grande instabilità, l’esistenza ha necessità di decisioni sagge e di serietà. Il seduttore è lontano, resta da seguire il maestro. «La scelta per voi giovani, oggi, è quella tra il successo immediato e il compimento. E qui attenzione, il tranello sta nel fatto che può esserci il successo senza il compimento. Pensa a Van Gogh, che nell’ultimo periodo della sua vita dipingeva addirittura due quadri al giorno, senza mai averne venduto uno. Ma lui era pittore, il suo compimento era dipingere, non vendere. E lo stesso accade con Willi il Coyote e quell’odioso di Beep Beep. Nell’esistenza di Willi c’è la continua rincorsa, la continua caccia, imperterrita e instancabile. Lui ogni mattina si alza e segue la sua essenza, ricerca il proprio compimento. Beep Beep è il seduttore, invece, che ride e scappa, senza lasciare nulla. Ma tu dimmi, adesso, in conclusione di questa nostra chiacchiera: usciresti a cena con Willi il Coyote o con Beep Beep?». Willi, rispondo. Sceglierei Willi.