Di Irene Nembrini
Trecento metri sul livello del mare, poco più di duemila abitanti, case rimaste vuote e la voglia di ricominciare. Entrando a Riace c’era un cartello: «paese dell’accoglienza». Ora quel cartello non c’è più, ma la sua impronta resta impressa nella mente di tanti: persone che hanno ammirato e ammirano tuttora un progetto così straordinario, così «fuori posto» nel panorama nazionale. Eppure è successo, è successo a Riace, e abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con l’ex sindaco Mimmo Lucano, mente e cuore dell’associazione Città Futura – Giuseppe Puglisi, che ancora oggi lavora per creare una cultura dell’ospitalità, capace di conciliare identità locale e accoglienza.
Il progetto di Riace coinvolgeva tutta la città e i cittadini: quanto sono potenti la comunità e la spinta «dal basso» in un progetto come questo?
«Per un villaggio globale è fondamentale avere la partecipazione della comunità. Riace è stata un susseguirsi di casualità e combinazioni, ma la protagonista era la comunità, io mi sono limitato a coordinare. Le nostre sono aree “fragili”, vittime di spopolamento e perdita dell’identità, che sembravano non avere scampo: i rifugiati ci hanno aiutato a ricostruire una dimensione sociale della comunità, hanno risvegliato la nostra città. È stata un’esperienza straordinaria che ha creato grande rigenerazione sociale, ma sempre rispettando la realtà locale in tutte le sue sfumature: abbiamo recuperato scuola, asilo nido, antichi mestieri, commercio solidale».
«Non siamo in grado di gestire questa situazione»: lei che cosa risponde a questa affermazione?
«Credo che non sia una questione di essere in grado o meno: nessuno ha il diritto di privare gli esseri umani dei loro diritti, tutti hanno diritto a un’opportunità. Non ci vuole nulla, dobbiamo solo trasformare la situazione attuale in normalità, è di una questione di atteggiamento. C’è stato un periodo in cui la percentuale di immigrati a Riace era più grande del resto dell’Italia, ma non c’è stato scandalo: la città era diventata un luogo permeabile, dove l’orizzonte è libero. Solo senza muri si può guardare lontano».
Rispetto all’attuale modello di accoglienza, che cosa si potrebbe fare diversamente?
«In questi ultimi anni, a prescindere dalle forze politiche, non c’è mai stata una vera presa di coscienza e consapevolezza rispetto al tema dell’accoglienza. Voler chiudere i porti è un’assurdità: le migrazioni sono movimenti che fanno parte del progresso dell’umanità. A Riace l’accoglienza è nata per caso da uno sbarco nel 1998, ma fino al 2017 nessuno si era mai accorto di noi. Quando è stato deciso di focalizzare l’attenzione mediatica su Riace, ecco che è diventata qualcosa da contrastare, ha iniziato a “dare fastidio”. La nostra città è inserita in un contesto difficile, l’unica alternativa era andare via: l’accoglienza è stata la soluzione. Il tentativo di contrastare il progetto di Riace ambiva ad omologarla agli interessi politici e ideologici di un’immigrazione “cattiva”, l’accoglienza è stata demonizzata dall’egoismo e dalla discriminazione. È un atteggiamento che va assolutamente cambiato».
Guardando le varie vicende giudiziarie e l’impatto che hanno avuto sulla città, secondo lei si può ricominciare?
«Il progetto di Riace non è un ghetto ma un luogo di tutti: per noi ormai è diventata la normalità, anche se per molti è un’avanguardia quasi utopica. Ora non è più la stessa storia. Io ho già fatto 3 volte il sindaco, ci saranno nuove elezioni a Riace, ma non so se mi ricandiderò. Ancora oggi partecipo al villaggio globale: qualche settimana fa un ragazzo mi ha detto: “con il coronavirus io resto a casa, ma non ho una casa”. I suoi documenti non erano più accettati e non aveva un posto in cui stare. Che mondo è questo? L’ho aiutato come potevo, ho continuato a fare ciò che facevo quando ero sindaco. Ora siamo senza fondi pubblici, è tutto più difficile, ma continuiamo».
Come si impara a sentire la responsabilità per le ingiustizie a danno di altri o della società?
«Si può imparare: nella vita facciamo esperienze e apprendiamo ogni giorno. Mi ritrovo molto nella frase “noi siamo ciò che incontriamo”: noi incontriamo la vita, non solo le persone. C’è una realtà mondiale fortemente divisa tra chi opera per un mondo di fraternità e rispetto, e chi vuole soffocare i più deboli sotto il peso dell’odio. Abbiamo bisogno di questa emotività che ci fa immedesimare nelle persone: dobbiamo avere la capacità di sentire le ingiustizie su di noi. Osservando la morte di George Floyd tutti noi abbiamo provato quel soffocamento, è stata un’amarezza terribile. Ho sentito il peso di un mondo che si perde nell’odio e nella violenza. Quello che c’è stato in America, la spinta del popolo, dimostra che possiamo ancora imparare».
Negli ultimi anni abbiamo assistito a numerosi movimenti e manifestazioni guidate dai giovani, l’ultimo esempio sono le proteste scatenate dalla morte di George Floyd, in cui sembra essersi formata una nuova fraternità. Che giudizio ha sui giovani?
«Con il tempo ho capito che le nuove generazioni sono sempre più importanti. L’impulso per costruire giustizia e uguaglianza parte proprio da loro. Recentemente sono stato a Rosarno a una manifestazione in ricordo di Giuseppe Valarioti, professore ucciso dalla mafia nel 1980: lui ha sempre avuto un rapporto speciale con i giovani. Cercò di plasmare un futuro più giusto e umano a partire proprio da loro e pagò con la vita: la gente gli diceva che il suo problema era proprio quello, il voler continuamente coinvolgere i ragazzi».
Con la sua esperienza, sia positiva che negativa, si è fatto un’idea di cosa sia il potere?
«Il potere è qualcosa che cammina ma non ha volto, che appare come l’opposto di quello che è realmente».
Che cosa vuol dire «odiare»?
«Io non riesco a odiare. Odio l’odio. Discriminazione, razzismo e chi li veicola mi fanno arrabbiare e indignare, sì, ma non riesco a provare odio. Non riesco a dargli un senso».
Ha pianto nei momenti più duri?
«Tante volte! Piangere è bellissimo, ti apre il cuore».
Davanti alla disumanità e alla disuguaglianza c’è ancora spazio per sinistra e destra? C’è una terza via, un elemento che unisca anche al di là del colore politico?
«È una domanda difficile: il pensiero non è mai neutrale, il vento quando soffia è libero. Anche se siamo “di parte” non è detto che riflettiamo necessariamente ideali politici: la mia indole e i miei ideali sono chiari, anche se non ho mai avuto tessere di partito. Non sono neutrale. Altruismo e fratellanza stanno dalla parte di chi vuole un mondo partecipativo e senza differenze, e sono anche i valori alla base della nostra Costituzione. Questi valori fanno parte di chi sente nella propria indole un entusiasmo che non può essere spento, che va al di là della politica, al di la delle sconfitte e delle vittorie».
Quali suggerimenti di azioni concrete può dare ai giovani che vogliono rimboccarsi le maniche e reagire?
«Venite a Riace ad incontrarci. Noi non ci fermiamo, nonostante tutto: non possiamo rimanere indifferenti, e per non fermarsi serve rincorrere continuamente l’utopia, avere uno sguardo libero e lontano. Quando sono diventato sindaco, non sapevo da dove iniziare ed ero pieno di dubbi: le incertezze restano, ma ho capito che non bastava fare le cose in maniera ordinaria, dovevo andare oltre. Mi sono ispirato a grandi come Peppino Impastato e Giuseppe Valarioti, persone che si sono schierate e hanno preso parte contro le ingiustizie. Agite e non abbiate paura a schierarvi dalla parte della fratellanza. Che senso ha la vita altrimenti?».