In questi tempi costretti in casa da quel maledetto Coronavirus, i cronisti del Bullone si cimentano in un’esperienza più volte desiderata durante le riunioni di redazione del giornale. «Ma perché́ non scriviamo un libro, tutti insieme?». Abbiamo deciso di partire chiedendo l’aiuto di uno scrittore e formatore professionista, Lorenzo Carpanè, che è stato il ghost writer del primo romanzo dei B.Liver, La Compagnia del Bullone. Il Bullone vi propone quindi, cari lettori, un libro a staffetta: ogni mese uscirà un capitolo scritto da un ragazzo, che altro non sarà se non la prosecuzione del capitolo precedente. Un lungo filo rosso con i medesimi protagonisti, la stessa location e la medesima ambientazione temporale. Un gruppo di giovani che abitano una città, Milano, e vivono il decennio che si avvicina al 2030. Spetterà a ogni B.Liver arricchire il proprio scritto con immaginazione legandosi al finale del capitolo precedente. Sarà un libro aperto, collettivo. Si darà la precedenza ai ragazzi del Bullone, ma anche volontari e studenti che ci hanno seguito in questi anni potranno immergersi e confrontarsi con un’esperienza unica e, speriamo, fantastica per tutti. Nel numero scorso abbiamo pubblicato il terzo capitolo. Eccovi il quarto.
IL RIASSUNTO DEI PRIMI TRE CAPITOLI
Lapo e Riccardo sono due amici milanesi. Abitano in centro. Riccardo vuole scrivere un libro ma si blocca davanti al foglio bianco. Lapo lo prende in giro mentre camminano per Milano. Riccardo racconta di un incontro al semaforo tra via Santa Sofia e corso Italia con una bella ragazza dagli occhi verdi e i capelli neri. Una cotta a prima vista. Lapo corre in soccorso dell’amico e con un’app di tracciamento riesce ad individuare la misteriosa ragazza con un borsone nero. Un borsone che usano le ragazze che vanno all’Accademia della Scala. «Trovata, si va» dice Lapo all’amico. E raggiungono l’ingresso dell’Accademia. Una lunga attesa, fino a quando compare lei, la ragazza dagli occhi verdi. E via all’inseguimento. Ci si muove in corso Italia, via Zebedia e piazza Sant’Alessandra. La ragazza si chiama Matilde ed è stata avvicinata alla danza dalla nonna appassionata. Matilde che deve andare in stazione per tornare a casa si accorge dell’inseguimento di Lapo e Riccardo.
Di Andrea Pravadelli
«Poteva decisamente andare meglio, bastava fare un primo passo qualche via prima. In fondo cosa ci voleva per andare li e fermarla? Bastava una frase semplice almeno per conoscerci. Essere colto in flagrante mentre la seguo non è il tipo di incontro che sognavo: giro troppo intorno a queste cose e poi faccio un casino». Cosí sta andando anche con il suo libro, passa pomeriggi davanti alla scrivania ma non arriva mai ad essere abbastanza convinto che sia la frase giusta, cosí il libro non inizia.
Ogni volta che le cose vanno così ripensa a Laura. Aveva un bel nome e in effetti è tutto quello che aveva saputo dirle: «hai un bel nome». Nonostante i due anni che avevano passato in classe insieme, di cui quattro mesi da compagni di banco, non aveva saputo dire nulla di meglio.
Richi glielo fa ancora pesare il fatto di non essere riuscito a dire altro a quella deliziosa ragazza. La stessa cosa è successa due settimane fa quando dal telefono è venuta fuori una notifica e il match di Lapo era una ragazza bionda. Era bella, Lapo gli ha detto «Ehi Richi questa è carina, potrei scriverle!»
«Sì» gli ha risposto lui,a «perché non le dici che ha un bel nome?», sfottendolo.
Ma Lapo era rimasto all’altra: era davvero un bel nome, Laura.
Lapo continua a rincorrere i suoi pensieri. Cammina e pensa, ma le sue riflessioni sono interrotte dalla voce di quella ragazza.
«Beh, mi state seguendo?» chiede ancora lei.
Deve dire qualcosa Lapo, subito, prima di vedersi confermare per l’ennesima volta il solito risultato fallimentare.
«No, scusa, stavamo andando a bere una cosa, sai orario aperitivo…».
«Poteva anche uscirmi qualcosa di meglio», pensa tra sé. Ma mentre è ancora indeciso su come procedere, compare una giornalista sullo schermo dell’installazione “city museum”, uno di quelli con le opere d’arte affisse su tele digitali per le strade. Con voce sonante e con lo sguardo serio annuncia: «Nell’area dei Paesi Bassi il contagio è ormai sopra le soglie di contenimento; secondo gli esperti i casi riscontrati nel nostro Paese non sono isolati e potrebbero costringerci a una fase di lockdown nelle prossime settimane per scongiurare l’ipotesi di un’emergenza sanitaria».
I tre vengono carpiti dalle parole della giornalista. Due di loro, i due maschi, almeno vengono salvati dalla figuraccia in atto.
Richi salta in aria: «Oh raga, che sbatti se ci chiudono come quando eravamo piccoli! Stavolta non mi bastano i lego per passare le giornate». Prova a fare lo spiritoso, ma Lapo sa che in realtà Richi è molto più spaventato di quel che dà a vedere.
A Lapo, invece, che lo possano chiudere in casa non importa: si sente una macchina, è in ballo e deve ballare perché in casa può anche stare senza problemi; l’importante è che finalmente possa parlare con una lei e con quella “lei”, e non con un’intelligenza artificiale che ancora non ha capito che a lui piacciono more e non bionde.
«Beh a questo punto» esordisce Lapo «questo aperitivo lo devi fare, magari poi per tre mesi non possiamo più farne». Si volta verso la ragazza sicuro di aver detto la cosa giusta, anche lui preso dal desiderio di sdrammatizzare, o di volgere a suo pro quell’annunci. Già sta gustando il Campari shakerato in compagnia di una ragazza vera, in carne ed ossa, con il colore giusto dei capelli.
Ma lei, improvvisamente, scoppia a piangere mentre cerca di mascherarsi il volto con le mani.
Dieci anni. Erano passati dieci anni da quando Matilde, un lockdown lo aveva già vissuto, chiusa in casa. E anche se era piccola se lo ricorda. Si ricorda la sensazione che quel periodo le lasciò. Le vengono subito a galla brevi flash, urla senza un senso, il gioco dell’infermiera fatto con la sua mamma che poi tanto un gioco non era; sono frammenti sconnessi tra loro, senza contesto. Come se d’improvviso gli aghi della memoria tornassero a pungerla.
Ora che la prospettiva di un altro lockdown si fa più vicina, Matilde torna a sentire quei frammenti di dolore, i flash diventano momenti di paura in un grande buio.
Solo una voce le risuona dentro, tra una fitta e l’altra, quella della nonna che le dice: «quando è buio, balla Matilde, balla fino a che non riaccendono le luci».
Richi e Lapo non sono certo due analisti, però a Lapo un paio di volte un attacco di panico è venuto e se ne vede uno lo riconosce.
In questo caso a Hollywood il prosieguo sarebbe garantito solo che questo non è un film e il finale si costruisce in corso d’opera.
«Lapo cosa facciamo?» domanda Richi che ha già il passo pronto per andarsene, non per cattiveria ma piuttosto per paura.
«Richi stai tranquillo, ce l’hai un fazzoletto?»
Quando a Lapo è successo di avere avuto un attacco di panico si trovava da solo, con lo zaino in spalla che aspettava l’autobus per andare a scuola. Ancora una volta in ritardo mentre ripassava per l’interrogazione di recupero di scienze sulla quale la prof era stata chiara: «con questi numeri al massimo vai a giocare la schedina, ma in quarta liceo non ci arrivi». L’autobus non arrivava più, ma le lancette marciavano come soldati sull’orologio verde appeso sulla pensilina. Fu in quel momento che di colpo finì l’ossigeno nell’aria e per un minuto tutto nella sua testa arrivò insieme: l’interrogazione, la nota per l’ennesimo ritardo, i suoi genitori che lo guardavano con il solito sguardo. Tutto in una volta e per un minuto con il cuore in gola, che gli fece annebbiare la vista, sudare freddo, provare un senso di infinita stanchezza.
Poi l’ossigeno piano piano tornò nell’aria, il cuore nella sua sede, gli occhi ripresero a vedere con chiarezza.
Tutto sommato poi l’interrogazione andò anche bene, l’anno fu salvato, la sua estate privata delle altrimenti inevitabili ripetizioni. La nota invece non ci fu santo che la potesse evitare.
«Tieni» dice Lapo porgendo il fazzoletto alla ragazza. Non fa altro, non dice altro: solo quel piccolo gesto per dimostrare che in quella piazza non è da sola.
Ci vuole qualche minuto prima che Matilde torni almeno un po’ serena e le lacrime smettano di lucidarle le guance.
L’unica cosa che fa Lapo nel frattempo è stare lì, a guardare lei che lentamente rallenta il ritmo dei singhiozzi, libera il volto dalle sue mani, si asciuga nervosamente le lacrime.
«Richi, se devi andare a casa posso restare io con lei» dice Lapo, sperando che Richi li lasci soli, anche se però di rimanere con lei ha paura. Cosa fare adesso? Cosa dire a una ragazza della quale non conosce il nome e che sta ancora asciugandosi gli occhi dopo essere implosa in una piazza piena di sguardi?
Richi risponde in fretta: «Lapo io andrei a casa, mi aspettano a cena; ma dopo chiamami». Mentre lo dice alle sue spalle Matilde si alza e prende a correre verso i tornelli che separano la piazza dai binari magnetici. Corre stringendo a sé la borsa, come stesse scappando da un ladro che poco prima aveva tentato di strappargliela via.
Lapo le corre dietro senza guardare in faccia il suo amico che rimane lì senza aver capito, forse senza nemmeno aver capito che non era poi un gioco quello a cui stavano assistendo. Ma Lapo, se quella ragazza aveva un bel nome, voleva saperlo. Magari uno di quei nomi che vale la pena rincorrere per tutta la città, e passare per un matto e anche per un ladro.
Le corre dietro sperando che qualcosa ancora permetta in extremis il loro incontro. Ormai però non c’è più molto in cui sperare.
Se non che quando proprio non ha più passi nelle scarpe è Trenord, ancora in ritardo nonostante tutte le promesse, a decidere che quel giorno Lapo e Matilde si devono conoscere.
Una ballerina è metodica perché non può sbagliare su di un palco nemmeno un passo: prova e riprova fino a quando la sincronia diventa meccanica. Così anche nella vita, quella alla luce del sole e non dei riflettori, con la stessa precisione e metodico ordine, balla.
Tutti i mesi infatti Matilde rinnovava il suo abbonamento del treno, ogni mese esattamente il 5, per evitare troppe code. Quel mese però non lo aveva fatto come sempre il fatidico giorno 5, come sempre al totem di piazzale Cadorna; non lo aveva fatto perché aveva speso più del previsto per il regalo a Claudia, una sua compagna di accademia che era partita per Mosca. Così aveva deciso di comprare un carnet da dieci viaggi da integrare poi, proprio il giorno in cui Lapo e Richi avevano deciso di fare qualcosa del loro pomeriggio, con un altro carnet da dieci.
Lo avrebbe fatto prima di partire verso casa con i soldi caricati sul suo conto dalla vicina di casa, per la quale aveva tenuto un paio di sere i bambini mentre lei e il marito uscivano a cena.
Del carnet si era però dimenticata e non l’aveva comprato; così, arrivata ai tornelli, la luce si illumina di rosso bloccando la fila di pendolari a cui lei fa capo nella sua corsa.
«Aspetta! Mi chiamo Lapo, ti stavo seguendo, hai ragione, perché ti ho visto l’altro giorno per strada e …»
«Non è il momento!» le risponde lei tesa, interrompendo ciò che Lapo stava forse per dirle.
«Senti, ti capisco sono le 20.20, vai pure, ma almeno dimmi come ti chiami» la implora Lapo con una voce che egli stesso fa fatica a riconoscere come sua.
«Io mi chiamo, Lapo piacere» aggiunge, cercando anche di allungare la mano, che però lei ignora.
«Che ti chiami Lapo me lo hai già detto. Le 20.20 ho perso l’ultimo treno!» esclama smarrita.
«Dove devi andare? Magari Richi ci può prestare la sua macchina» prova ad aggiungere Lapo.
«Grazie… Lapo» gli risponde facendo fatica a pronunciare quel nome. «… ma non vado da nessuna parte con chi non conosco. Chiederò a una mia amica di poter dormire da lei stasera».
«Beh allora questo aperitivo me lo puoi concedere! Io ti ho prestato un fazzoletto” prova a insistere Lapo con un tono ben diverso da quello di prima, sempre più preso da una storia che non è ancora cominciata, ma che forse è già scritta.