Il Progetto Fotografico Cotton Candy. Intervista a Marta Viola

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Cotton Candy di Marta Viola
Cotton Candy di Marta Viola

Cotton Candy, il nuovo preogetto fotografico di Marta Viola, è maturato molto lentamente, c’è stato tanto pensiero prima e solo a un certo punto, dopo quasi due anni di ragionamento su questa nuova condizione fisica, la volontà di realizzare delle immagini ad hoc, come una sorta di mappa da condividere. Ci sono anche dei punti di congiunzione, qualche autoritratto, ma in questo caso è forte il riferimento agli altri, nel senso di condivisione di una situazione complessa di fragilità. Le donne che narro in questi ritratti scattati con una polaroid hanno la possibilità di manipolare la foto.

Di Stefania Spadoni

Una donna il cui corpo attraversa modificazioni fisiche invadenti e precoci è costretta a rivedere l’esperienza di sé. 

Ricomporre tessuti di pelle e relazioni in un contesto dalle linee guida irremovibili. Riconoscersi in nuovi strati di una fragilità spesso invisibile, che filtra la realtà e la rende frastagliata. Storie di corpi senza nome, ma con identità minate dalla compromissione delle percezioni, a breve o a lungo termine. Sessualità interrotte temporaneamente, o modificate. La menopausa prematura, indotta farmacologicamente o come conseguenza di terapie molto forti, comporta reazioni fisiche ed emotive di cui si parla molto poco. Perfino chi le vive fatica a condividerle. 

Progetto sviluppato durante il laboratorio Human a cura di Yogurt Magazine.

Marta, con il tuo precedente lavoro Sangue Bianco, racconti la tua esperienza con la leucemia e il conseguente trapianto di midollo e in qualche modo attraverso fotografie e immagini, ci permetti di entrare nell’intimo e personale percorso che hai attraversato e che ti ha molto segnata. Cotton Candy è una sorta di «secondo capitolo» del precedente lavoro?

«In un certo senso sì, perché parte da una riflessione su una condizione personale che poi si è allargata. Ho capito che non doveva essere solo una narrazione introspettiva, ma che potevo spostare lo sguardo su situazioni simili alla mia. Può essere considerato un secondo capitolo in tanti sensi, perché racconta cosa è successo dopo la malattia, cosa accade quando si ritorna alla quotidianità e come si sono sviluppate le relazioni intorno a me e nel contesto sociale nel quale ero ritornata, le aspettative, ma soprattutto cosa credevo di poter fare, cosa volevo fare. Di sicuro visivamente è un lavoro molto diverso».

Opera tratta dal progetto Cotton Candy di Marta Viola
Opera tratta dal progetto Cotton Candy di Marta Viola

Ci racconti un po’ il modus operandi di questo lavoro?

«Il progetto è nato due anni fa, quando iniziavo a stare meglio. Il lavoro ha avuto un’incubazione molto lunga, soprattutto legata a una reale difficoltà di portare fuori quello che avevo dentro di me.

Rispetto a Sangue Bianco posso dire che ha avuto un modus operandi diametralmente opposto, perché se Sangue Bianco è stato concepito nel qui e ora, in un momento della mia vita molto drammatico che ho metabolizzato un po’ alla volta con un lavoro di scrittura e fotografia quasi istintivo, Cotton Candy, invece, è maturato molto lentamente, c’è stato tanto pensiero prima e solo a un certo punto, dopo quasi due anni di ragionamento su questa nuova condizione fisica, la volontà di realizzare delle immagini ad hoc, come una sorta di mappa da condividere. Ci sono anche dei punti di congiunzione, qualche autoritratto, ma in questo caso è forte il riferimento agli altri, nel senso di condivisione di una situazione complessa di fragilità. Le donne che narro in questi ritratti scattati con una polaroid hanno la possibilità di manipolare la foto, quasi a creare una sorta di non riconoscibilità della persona. Ci sono gli ambienti fotografati che rappresentano uno stato d’animo, proprio come in Sangue Bianco. I colori e le luci rappresentano un mood emotivo molto definito, che racconta di ambienti esterni, di luce e aria, con un nuovo respiro, ma rimane un punto fermo che accomuna i due lavori: la solitudine, espressione di una condizione difficilmente condivisibile. C’è una parte più “clinica” con fotografie di strumenti più o meno riconducibili all’ambito medico, rappresentati in maniera quasi decontestualizzata dalla neutralità a cui appartengono. Infine, una parte di visioni che evidenzia l’attenzione concentrata sul ruolo femminile da parte della società, nel corso della storia dell’uomo.

Per ora in questo progetto ci sono solo immagini. È stato il mio modo per rappresentare delle cose che non riuscivo a dire attraverso la voce».

Ritieni che l’arte e l’espressione artistica in tutte le sue forme possano essere un modo per affrontare un trauma e in qualche modo, raccontandolo, comprenderlo?

«Sì, è un tentativo. Non so se si riesca. Per me è stato utile avere qualcosa di materico e manipolabile. Il fatto di modificare fisicamente i ritratti è una modalità per raccontare la costruzione di una nuova identità, che poi è un segno distintivo dell’evoluzione umana in generale, a prescindere da una malattia o un’invalidità. Un modo per ricomporre, riallineare, dopo essere stati destrutturati. La parola fisico è importante in questo progetto, proprio per raccontare una fragilità che non si vede».

In Cotton Candy sono presenti tante donne che in qualche modo tu scorpori da te stessa e dalla tua esperienza e ci racconti. Ti è servito il confronto con loro? Come hai integrato il bagaglio emotivo e fisico di esperienze simili, oppure completamente diverse dalla tua?

«Ho voluto fortemente indagare la condizione femminile. Sicuramente perché mi appartiene in quanto donna, ma anche per affrontare tutto il tema critico delle aspettative che maggiormente colpisce la sfera femminile della popolazione. In questo progetto non ci sono solo io; ci sono storie che ho conosciuto più da vicino e storie anche molto lontane. Sicuramente in questi anni sono diventata più sensibile e più attenta a tutto ciò perché trovo dei punti di coincidenza con la mia storia. Questo mi ha fatto sentire vicina anche alle persone che non ho conosciuto. Ci sono così tante cose di cui non si parla e questo ti fa sentire sola, anche se in realtà non è così. Parlare con altre donne mi ha fatto sentire compresa. Ho realizzato con concretezza che spesso tutto questo accadeva a donne e ragazze che guardandole, non lo avresti mai detto, esattamente come con me. Dentro di noi, dietro di noi c’è un universo, troppo spesso inesplorato. Ogni immagine di questo progetto è la mia personale reazione a quello che ho visto, letto, ascoltato e vissuto. Ho cercato di creare una rete tra le esperienze».

Opera tratta dal progetto Cotton Candy di Marta Viola
Opera tratta dal progetto Cotton Candy di Marta Viola

Se guardo alla tua precedente produzione artistica, diciamo quella pre-malattia, il panorama che esplori è quello del territorio. Un territorio fragile, ferito, quello del centro Italia colpito dai terremoti, ad esempio. Un territorio che è anche la tua casa e che prova a ricostruirsi. Non posso fare a meno di pensare che ci sia una similitudine fra il corpo della tua terra e il tuo corpo.

«La fragilità delle situazioni è sempre stata nell’occhio della mia macchina fotografica. Ero attratta da situazioni di un questo tipo in maniera incosciente, ma forse era solo la punta dell’iceberg. Rappresentare il territorio non è mai stata solo una narrazione descrittiva, c’era sempre l’approfondimento di uno stato d’animo personale o degli abitanti del luogo. L’ambiente rappresenta ciò che siamo e come ci sentiamo, è una narrazione di una condizione umana sempre».

La sessualità è ancora un tabù? E questi tabù impediscono una sana riabilitazione per chi deve ripensare al proprio corpo e alle relazioni con l’altro?

«Sicuramente oggi se ne parla sempre di più e in maniera più libera, ma i maggiori tabù sono dentro le persone, quindi il primo lavoro grande da fare è su di sé. Ascoltare il proprio corpo, dialogare con se stessi prima, per poi dialogare con gli altri. Siamo figli di una cultura dove molte cose sono ancora da scardinare, poi l’immaginario comune racconta una staticità in cui una persona giovane sta necessariamente bene e non ha problemi. Ci raccontiamo una «normalità» che non esiste e abbiamo poca attenzione ai disequilibri che accadono continuamente nel corso della vita delle persone. L’aspetto della sessualità è molto presente in Cotton Candy, anche se non in maniera irruenta e questo ci riporta al tema dell’invisibilità. Alcune disabilità non sono visibili, quindi spesso non lo sai chi hai davanti come sta davvero. Per questo ho preferito indagare l’argomento sessualità e disabilità che più era vicino a me, perché avevo una connessione precisa. Questo lavoro può essere un punto di partenza per allargare l’indagine. Credo che connettersi con altre realtà ed esperienze anche diverse serva a comprendere che non si è mai veramente soli. Spero che questo lavoro aiuti a superare l’individualismo, la difficoltà di parlare, eliminando le sovrastrutture che portano a chiuderci in noi stessi. La fragilità è una delle caratteristiche costitutive del nostro corpo, non ha senso far finta che non ci sia».

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