Gualtieri, Sulle Rive Del Po, Con I Colori Di Ligabue

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Il racconto di Alberto Figliolia sull’artista Antonio Laccabue detto anche Ligabue, sulla riva del Po nel paese di Gualtieri.

Di Alberto Figliolia

Deserte le vie del borgo e deserta la grande piazza porticata su un lato della quale si staglia l’imponente mole di Palazzo Bentivoglio. Nel silenzio aleggia il profumo del Po che si stende come una coperta d’attesa. Forse il silenzio di quest’ora segnata dalla canicola sarà spezzato dal rombo di una rossa Moto Guzzi, come quella di , al mondo più noto come Ligabue: il pittore matto, il tracciatore di sogni e sospiri ancestrali e versi animali sulle tele della sua tormentata fantasia.
Gualtieri è un paese fra i più belli d’Italia ed è noto per essere il luogo dove Antonio finì a un certo punto della sua ancor giovane vita. Lui difatti era nato nel 1899 a Zurigo.

La madre era originaria del bellunese, il padre… non si sa. Il cognome gli venne poi dato da tale Bonfiglio, originario della provincia reggiana. Ma le traversie di Toni erano appena iniziate. Infatti fu affidato, a neanche un anno d’età, a una famiglia svizzero-tedesca che non poteva avere figli. Il clima domestico non doveva essere in ogni caso idilliaco (aggiungiamo che Toni soffriva di rachitismo e gozzo). A vent’anni Ligabue fu espulso dalla Svizzera e si ritrovò a Gualtieri. Non conosceva una parola d’italiano. Fu emarginazione, scherno e abbandono. Fu vita selvatica in una capanna nel bosco. Poi la scoperta della pittura, in parallelo, sempre, con il disagio: catartica e apotropaica, dolce e crudele strumento di scoperta e rivisitazione, senso del mistero e comunione con le forze della Natura.

Commuove muoversi per i luoghi battuti dal pittore, vederne al cimitero l’umile loculo con la maschera funebre – Il rimpianto del suo spirito che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore, la dedica sul marmo – e tocca nel profondo ammirare le opere esposte nel magnifico Salone dei Giganti di Palazzo Bentivoglio per l’esposizione Incompreso. La vita di Antonio Ligabue attraverso le sue opere (fino all’8 novembre): Serpentario, Aquila con volpe, Castelli svizzeri, Diligenza con paesaggio, la tigre, il gatto predatore, i cavalli imbizzarriti, i tanti dolenti (e spietati per verità psicologica e fisica) autoritratti. La pittura di Ligabue era specchio della lotta per la vita e, nel contempo, ricerca di un’armonia perduta, trauma e sogno (in tedesco  – vale a dire, anche se sembra strano a dirsi, la sua lingua madre – sogno/i si scrive Traum/Träume), sofferenza e contemplazione estatica.

Volevo nascondermi è l’emblematico titolo del film, per la regia di Giorgio Diritti, che racconta con fedeltà, sensibilità ed empatia (einfühlung in tedesco) la vicenda e le vicissitudini del bambino e dell’uomo Ligabue, le sue crisi psichiche (non pochi i ricoveri in ospedali psichiatrici, fra Confederazione Elvetica e Italia), le danze nell’aia a imitare gli animali, lo straordinario rapporto con la materia da plasmare, la selvaggia abilità del pennello, la marginalità e la «solitarietà», il ricatto esistenziale e il riscatto attraverso l’arte. E anche la fama negli ultimi anni, con le dodici moto, sua vorace passione, e le tre auto con autista; notorietà pagata anch’essa, tuttavia, a caro prezzo, vista l’emiparesi che l’avrebbe infine, negli ultimi suoi anni, travagliato e reso inabile alla pittura.

Incredibile davvero è l’interpretazione attoriale di Elio Germano, già Giacomo Leopardi ne Il giovane favoloso, un’immedesimazione pressoché totale in grado di restituirci l’immagine e l’anima di un uomo semplice ma complesso, complessato ma forte, ingenuo ma sapiente, un profeta dei colori, Maestro suo malgrado. Così simile a van Gogh, nostrano e universale, uno sradicato e ri-radicato, lo svizzero che parlava in emiliano, colui che intendeva le creature dell’aria, infelice eppure provvisto di una serenità atemporale, un mago buono.

La canicola a Gualtieri sta lasciando il luogo all’idea di un temporale estivo. Lontano un accenno di tuono. O forse è una motocicletta. Deserte le vie del borgo e deserta la grande piazza porticata con la rossa mole quattrocentesca di Palazzo Bentivoglio. Lontano, lontano il motore di una motocicletta… un’eco che si perde nel cuore. Come i colori di Toni.

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