Come Sta La Sanità? Intervista A Momcilo Jankovic

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Momcilo Jankovic interpretsto da Chiara Bosna
Momcilo Jankovic interpretsto da Chiara Bosna

Come stai? Come sta la sanità? Lo abbiamo chiesto nell’intervista al pediatra ed ematoncologo Momcilo Jankovic.

Di Martina Dimastromatteo

Abbiamo incontrato il pediatra ed ematoncologo, Momcilo Jankovic, per capire come sta oggi la salute. Jankovic, sempre con il suo sorriso rassicurante ha disegnato quello che c’è e quello che dovrebbe esserci per una sanità efficiente.

Come sta la sanità in questo momento? Come sta il servizio sanitario italiano?

«Il servizio sanitario italiano è senz’altro uno dei più organizzati, se guardiamo anche al resto dei Paesi europei. Io non lo critico, anzi, lo incoraggio, ma ovviamente ci sono dei limiti che sono, guarda caso, quelli della comunicazione, soprattutto in determinate situazioni, come quella che stiamo affrontando. C’è una cosa che mi porto dietro ormai da anni: il non spaventare la gente, ma responsabilizzarla. Invece, molte cose, come quella che viviamo oggi, sono basate più sul terrorismo e non sulla capacità di far capire quello a cui stiamo andando in contro. Questo per me è un grosso limite legato a una perdita di risorse e opportunità, che invece dovremmo avere. Faccio un esempio concreto: la vaccinazione antinfluenzale. Se si vogliono combattere le forme virali, l’unica soluzione è il vaccino. Non esistono farmaci antivirali, al di là di quelli antierpetici, che possono effettivamente funzionare in maniera egregia. La vaccinazione, a mio avviso, andrebbe fornita a tutti i cittadini, ma qui cozziamo con il discorso economico: le risorse che non vengono correttamente suddivise fanno sì che non ci siano vaccini per tutti i cittadini. Questa distribuzione a pelle di leopardo non garantisce una copertura. E lo stesso succederà con il vaccino per il Covid. Prima hanno detto che sarebbe stato obbligatorio per tutti, mentre ora hanno già fatto marcia indietro, perché effettivamente c’è un costo economico che lo Stato deve essere in grado di sostenere, ma questo fa parte della programmazione sanitaria che i nostri organi competenti dovrebbero avere, se abbiamo davvero timore di una pandemia che mette in ginocchio la popolazione. Dunque, non esiste una modalità ideale: esiste una progettazione, senz’altro valida, che ha però ancora dei limiti legati al modo in cui vengono erogati o suddivisi i fondi. E l’informazione è carente: dovrebbe far capire meglio, altrimenti la gente è terrorizzata e agisce secondo il proprio buon senso, ma il buon senso arriva fino a un certo punto e si rischia che le misure adottate dal singolo non siano poi realmente appropriate».

In questi mesi abbiamo sentito spesso osannare i medici e gli infermieri come eroi nazionali, ma purtroppo si sa, gli italiani hanno la memoria un po’ corta… Come sta, nel concreto, il personale sanitario? Ha gli strumenti, ma soprattutto le forze, per affrontare questa nuova ondata?

«La sanità è stata ampiamente tagliata in questi ultimi anni, perché il personale costa e dovendo fare un bilancio del rapporto costo-beneficio, le autorità competenti hanno deciso questo. Guarda caso, capita una situazione imprevista e si presentano parecchie difficoltà. Si sono dovuti richiamare al lavoro medici ormai in pensione, si sono messi allo sbaraglio giovani laureati… c’è stata un po’ di confusione. Io non credo che noi medici nell’intervenire siamo degli eroi, e te lo dico come medico: noi facciamo il nostro dovere, che viene fatto fronteggiando una certa situazione. Siamo delle persone che ovviamente hanno fatto più di quello che era loro richiesto in un momento di emergenza, come tanti altri del resto. Però, sono mancati i presidi o le modalità per fronteggiare e gestire al meglio la situazione: la chiusura di alcune strutture sanitarie e la mancanza di personale si sono fatti sentire, eccome. Quello che è stato fatto è dovuto molto alla buona volontà delle persone, più che all’organizzazione pubblica».

Pensa che le direttive previste dal nuovo DPCM possano essere davvero funzionali?

«Non voglio essere polemico, ma credo che di decreti ce ne siano stati davvero tanti, peraltro molto complessi, molto ambigui in certi punti. Capisco che non sia facile, ma c’è gente deputata a ragionare anche su queste cose: ognuno deve fare un po’ il suo mestiere. Alcune prese di posizione le trovo esagerate, anche perché il risultato è che la gente è davvero spaventata e sta agendo un po’ a spanne: c’è chi esaspera le cose, c’è chi le banalizza, c’è chi ancora, addirittura, pensa che sia tutta una farsa. Questo dovrebbe farci riflettere. Poi, il paragone che viene fatto con il resto dei Paesi europei lascia un po’ il tempo che trova: ognuno a casa propria fa quello che vuole. La banalizzazione c’è anche in Germania, in Francia, in Inghilterra, se vogliamo, ma a me non interessa: guardiamo al nostro Paese, che in questo momento è in difficoltà. Tutte le prese di posizione fatte per la scuola e altro non sono state ragionate in modo tale da venire in contro alle necessità della popolazione. I decreti, che sono di trenta/quaranta pagine, non li leggi: dovrebbe esserci una sinossi, in cui vengono indicati i presidi davvero necessari a fronteggiare in concreto il tutto. Seppur il personale sia poco, un’altra questione importante sarebbe la riammissione dei medici scolastici: non possiamo delegare agli insegnanti o ad un tutor le scelte sanitarie. Qui c’è un grande caso di abbandono decisionale. Non voglio criticare, ma questo è un riassunto delle nostre necessità che non hanno trovato una corrispondenza all’interno delle prescrizioni rigide e a volte, eccessivamente limitative, che sono state fatte. È un problema sanitario, economico, politico e anche medico-legale, perché qui c’è uno scaricamento di responsabilità e alla fine nessuno decide. E su questo anche noi medici ci abbiamo sicuramente messo del nostro. Nella vita, però, i bambini mi hanno insegnato che bisogna osare, certo con le attenzioni, con il buon senso».

Momcilo Jankovic interpretsto da Chiara Bosna
Momcilo Jankovic interpretsto da Chiara Bosna

Ma lei, come sta?

«A questa domanda, che è molto bella, non si ha il coraggio di rispondere. Come sto? Sto bene. Poi avrò i miei problemi, come tanta altra gente, ma lo star bene vuol dire che mi sento in forza efficiente e che porto avanti le mie cose. Ho momenti di demoralizzazione, di tristezza o di difficoltà, come capita a tutti, però trovo che troppo spesso non si ha il coraggio di dire “bene”. “Mah, potrei, farei, abbastanza, però…”, no, non è così. Dire “non sto bene” significa avere problemi fisici, economici, o comunque molto gravi, che stanno condizionando la propria vita, ma non credo sia così per la maggior parte delle persone. Purtroppo, ci sono delle fasce o dei gruppi che di sicuro possono rispondere negativamente a questa domanda. Ma se la fai a dieci persone, nove non saranno contente, e questo non è giusto».

C’è qualcosa che le manca, anche rispetto alla sua vita nella società? Lo chiedo anche pensando al suo percorso straordinario e a tutti i bambini che ha curato.

«Quello che mi manca è che l’unica cosa che non puoi modificare o cambiare è il tempo. Il tempo va avanti qualunque cosa succeda e il tempo, un po’, ti penalizza: ho raggiunto la mia età, mi hanno messo in pensione e seppur lavori ancora, non ho più quel ruolo di attività che mi piacerebbe ancora avere e che sento. Però, bisogna accettare anche i limiti: non ho più la freschezza e la forza fisica di una volta, dunque non è neanche sbagliato arrivare a un certo punto e fermarsi. Chiaro che mi mancano i miei bambini, i miei pazienti, però non posso dire di essere in una condizione nella quale mi sento abbandonato o inutile: ho ancora un mio ruolo, sicuramente ridotto rispetto a prima, ma nel quale posso dare ancora un contributo, agli altri e a me stesso. C’è una cosa per me molto importante: io mi occupo anche di bambini in fase terminale e di cure palliative e mi piace soffermarmi sul perché si chiamano così. Cure palliative significa cure di aiuto, cure di supporto e l’immagine che porto sempre alle persone è quella di San Martino: quando il santo ha incontrato il mendicante non gli ha dato tutto il mantello, ma lo ha diviso a metà. Questo è un segno anche di umiltà, poiché riconosce che anche lui ha bisogno di coprirsi dal freddo. L’aiuto che deve essere dato è un aiuto che protegge anche te stesso, per far sì che tu sia di supporto in maniera continuativa».

Quanto coraggio ci vuole per lottare per qualcosa in cui si crede o per raggiungere l’equilibrio di cui parla?

«Dico due parole per me fondamentali. La prima è credere: credere in quello che fai, essere convinto della tua attività, qualunque essa sia, e farla bene. Il secondo punto me l’ha insegnato un ragazzo di diciannove anni, che prima di andarsene, mi ha donato una poesia di Martha Medeiros: Lentamente muore, chi diventa schiavo dell’abitudine. Osare fare qualcosa, qualcosa che va contro l’abitudine e la convenzione: questa è la chiave per poter ottenere a livello personale, ma anche con gli altri, la soddisfazione che invece si perde nel momento in cui non rischi nulla».

C’è una cosa rivoluzionaria che cambierebbe la quotidianità, o che lei ha trovato per se stesso?

«Cos’è la normalità di vita? Oggi la mia giornata comincia alle sette e finirà a mezzanotte, è una giornata piena, il domani non mi interessa. Ho le mie finalità, i miei obiettivi, non vivo senza, ma la mia energia è focalizzata in questa giornata. Dunque, vivere la normalità significa mettere te stesso nella tua giornata. Vivere guardando il mezzo pieno e non il mezzo vuoto come facciamo sempre, non è facile, ma questo è l’atto eroico».

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