Il Riassunto Dei Primi Sei Capitoli
Lapo e Riccardo sono due amici milanesi. Abitano in centro. Riccardo vuole scrivere un libro ma si blocca davanti al foglio bianco. Lapo lo prende in giro mentre camminano per Milano. Riccardo racconta di un incontro al semaforo tra via Santa Sofia e corso Italia con una bella ragazza dagli occhi verdi e i capelli neri. Una cotta a prima vista. Lapo corre in soccorso dell’amico e con un’app di tracciamento riesce ad individuare la misteriosa ragazza con un borsone nero. Un borsone che usano le ragazze che vanno all’Accademia della Scala. «Trovata, si va» dice Lapo all’amico. La ragazza si chiama Matilde. Matilde viene inseguita dai due ragazzi e corteggiata fino alla stazione. Qui perde il treno. I ragazzi cominciano a parlare con questa bella ragazza con gli occhi verdi. Sono in piazza Gae Aulenti, nella parte nuova di Milano dove c’è una bella fontana. Riccardo, Lapo, Matilde parlano di tutto, anche di Puccini e Pavarotti. Non sembra un corteggio. Scintille di amicizie.
Di Loredana Beatrici
Proprio come quel 13 agosto di ventitré anni prima. Schiacciata in un angolo, paralizzata dalla sua bellezza. Intenta a spiare quella figura che, inconsapevole, era in grado di incantare chiunque. La contempla volteggiare sulle note della Turandot, in una piazza sempre più gremita di spettatori, accorsi per ammirarla.
Ci è riuscita ancora. Come ventitré anni prima, quando gliela misero tra le braccia e i loro occhi s’incrociarono per la prima volta. Occhi verdi. A mandorla. Che colpivano dritti al cuore. Che rapivano. Gli occhi dei bambini… C’è un istante esatto in cui ti colpiscono e ti colgono impreparata. Non sei pronta ad affrontarli. È davanti a quello sguardo che ha iniziato a sentirsi Nessuno. O forse non si era mai sentita qualcuno e quegli occhi erano stati solo lo specchio della sua inconsistenza.
Ora eccola lì, mentre danza sotto quell’istallazione. Essenza della perfezione. Espressione di vita, ma anche di un fallimento. Il suo. Come madre. Come donna. La urtano e si ridesta. Non si è accorta di essersi alzata e di aver abbandonato il suo angolo di sicurezza. Lo aveva scelto con cura quel tavolino del bar Rosso, con visuale sull’intera piazza: per vedere e non essere vista. Un gioco a cui si era allenata tutta la vita. Anche l’analista glielo aveva detto: «Ha mai pensato che i suoi tatuaggi siano un modo per distogliere l’attenzione? Per far leggere agli altri la copertina e non il libro della sua anima?». Già. Alle persone mostrava solo quelli. Non il suo corpo. Non i suoi occhi. Le labbra. I suoi tic. La sua anima. Di quelle si vergognava, come del suo passato. Torna a sedersi. Si tocca il braccio e quell’ultima immagine impressa sulla sua pelle: 13/08/2030. Il ventitreesimo compleanno di sua figlia Matilde, il quinto che aveva potuto trascorrere con lei. Poco più di un mese prima. L’aveva scelto con cura quel tavolino, da quel giorno. Con la speranza di rivederla in quella piazza, di poter trascorrere del tempo con lei e recuperare quello perso.
Giovane e inesperta. Così ha provato per anni a giustificare quell’abbandono così innaturale per una madre. Immatura e impreparata. Inadeguata ed egoista. Quanti appellativi si era autoinflitta per rendere più bruciante il senso di colpa! Ma erano state le parole di Domenica a farle più male: «Nessuno. Per lei ormai sei Nessuno!». Era stata chiara Mimì, quando aveva provato a rimettersi in contatto con lei e Matilde, pochi anni prima, in occasione del suo trasferimento a Milano. Quella donnina non aveva mai nutrito gran simpatia per lei. «Una stralunata che non fa altro che bighellonare con i suoi amici pseudo-rivoluzionari e nullafacenti. Lo vedi che non riesce a gestire vostra figlia? Matilde ha bisogno di stimoli. Di musica. Di cure. Non potete far finta che non abbia nulla». L’aveva origliata questa conversazione tra madre e figlio. Avrebbe voluto spalancare la porta e gridare che almeno lei e i suoi amici esploravano la sofferenza, per non essere delle marionette del sistema, come insegnava Cioran. Ma non aveva reagito. In fondo Mimì non sbagliava. Sua figlia aveva bisogno di cure. Così quando il papà di Matilde morì pensò che la soluzione migliore fosse quella di dileguarsi. Amnesia Psicogena, le avevano diagnosticato, dopo un anno d’ipotesi e accertamenti. Una sentenza arrivata ai due anni della piccola. Un’amnesia parziale che l’avrebbe portata a dimenticare solo parte dei ricordi legati al proprio passato. Ironia della sorte. Sua figlia si sarebbe ricordata quello che aveva mangiato il giorno prima, ma avrebbe potuto dimenticare chi fosse sua madre.
Forse una benedizione. Aveva vissuto meglio in questa inconsapevolezza. O forse Matilde l’aveva cercata, l’aveva disegnata su fogli e quaderni, ne aveva scritto sui diari. Forse.
«Nessuno. Per lei ormai sei Nessuno». Non poteva credere che la sua piccola avesse potuto dimenticarla. Non ci aveva creduto fino a quel 13 agosto. Era uscita dall’Università e aveva deciso di perdersi per Milano, che in due anni ancora non era riuscita ad amare. Tutti troppo perfetti. Troppo impegnati. Troppo veloci. Troppo riusciti. Lei cercava le falle di quel sistema così efficiente. Andava in giro a fotografare gli angoli fatiscenti, sporchi, lenti: un cassonetto non svuotato, il cartone di un senzatetto, un escremento a terra, un’erbaccia non estirpata. Questa era la Milano che l’attraeva. Una piccola vendetta verso quella città più adeguata di lei. Faceva caldo quel giorno e aveva ceduto all’attrattiva di un piccolo bar, sopravvissuto all’imponenza della fredda piazza Gae Aulenti. Seduta, si era accorta che dalla sedia penzolavano delle scarpe da ballo. Ci mise poco a individuare la proprietaria. Alta, snella. Portamento leggero. Chignon in testa. Borsone sportivo. Avrebbe fatto volentieri a meno di rivolgere la parola a una ragazzina viziata della Milano bene, aspirante étoile della Scala, ma la seguì. «Sono tue queste?». La ragazza si girò di scatto. Una stretta allo stomaco. Quegli occhi. Quello sguardo. Quelle linee che aveva osservato per ore e sulle quali aveva fantasticato, immaginandosi che forma avessero preso. Matilde. Faccia a faccia con lei, dopo 19 anni.
«Sì, mi scusi. Che sbadata! Le avevo tirate fuori perché non riuscivo a prendere la felpa e l’aria si stava facendo fresca. Sì, lo so. Forse un po’ esagerato ad agosto, ma mi sto preparando per un provino importante e non posso ammalarmi. Non so perché le racconto tutto questo. Anche perché sono una persona riservata. È che… Per caso ci siamo già viste da qualche parte? Ha un viso familiare».
Le emozioni le attraversavano il corpo, come un fiume in piena. Una secchiata di acqua gelida, in grado di scaldare il cuore e paralizzare la mente. Era quella la voce di sua figlia? Quindi ballava? E quegli occhi? Ancora una volta era come trovarsi allo specchio. ‘Tanti auguri piccola mia, oggi è il tuo compleanno. Sono la tua mamma’. Questo quello che avrebbe voluto sussurrarle abbracciandola.
«Sta bene? Sicura che non ci conosciamo? Comunque, se posso permettermi: ottima scelta! Quella è la mia canzone preferita!».
Non riusciva a riprendersi dallo stordimento. Le due birre bevute a pranzo non la stavano aiutando. Notò il dito della giovane ragazza puntare il suo avambraccio.
«Cosa scusa?».
«Quella canzone. È Eddie Vedder, no? Lo so, ho i gusti un po’ vintage, ma lo ascoltavano i miei genitori, una delle poche cose che ricordo di loro. Quella canzone poi… Stupenda. Don’t come closer or I’ll have to go. Owning me like gravity are places that pull. If ever there was someone to keep me at home. It would be you». Ascoltarla cantare quelle parole, che si era fatta marchiare sulla pelle, proprio per lei, le inumidirono gli occhi. Sua figlia si ricordava qualcosa di lei. «Quando ero ragazza mi piaceva andare ai concerti rock. Ho anche avuto la fortuna di lavorare per qualche allestimento». «Wow! Io purtroppo non ci sono mai riuscita. Per noi ‘generazione pandemia’ sono un lusso gli spettacoli dal vivo. È andata anche a un suo concerto? Di Eddie, intendo».
Così, come ventitré anni prima, loro due in una bolla e tutto il mondo fuori. Per un tempo indefinito.
Loro due. A parlare di musica, ballo, opera, filosofia. Una birra e una spremuta. Un’altra birra e un’acqua tonica. Una terza birra e «Per me niente, grazie. È tardi. Devo andare. Non mi ha detto come si chiama.
Io sono Matilde. Piacere».
Non le era mai capitato di rimpiangere quel gesto della sua gioventù. Le strette di mano, che tanto svelavano delle persone. Quanto avrebbe voluto ora quel contatto, ormai lontano ricordo spazzato via dai virus. Solo in quel momento si rese conto che era riuscita a dribblare tutte le informazioni sul suo conto, così anche sua figlia. Erano state in grado, con sapienza, di parlare dei massimi sistemi, senza neppure dirsi i loro nomi. Nessuno.
«Teresa, mi chiamo Teresa». Le tremava la voce. Pronunciare il suo nome era come scoprirsi. Come togliere la garza da una ferita ancora sanguinante. Poteva venirle in mente qualcosa. Poteva ricordarsi tutto e arrabbiarsi con lei. Lei sarebbe rimasta impassibile. Era pronta a incassare.
«È stato un piacere Teresa. Non capita spesso di incontrare fan dei Pearl Jam. Le voglio mostrare una cosa».
Matilde tira fuori dal borsone un foglio, con un disegno. Una scritta lungo una strada e due scarpette da ballo. «L’ho disegnato io. È il tatuaggio che non farò mai. Troppa paura degli aghi. Non riuscirò mai.
Glielo lascio. Magari trova un posto per farlo lei».
La guarda allontanarsi e con lei la gioia che aveva provato per pochi istanti. Una sensazione a cui non era più abituata.
Vuota. Ecco come si sente ora. Sono passati quarantatré giorni da quell’incontro. Teresa ogni giorno si è seduta al tavolo del bar, nella speranza di incontrare di nuovo sua figlia. Per respirare un’altra boccata di ossigeno. Guarda e riguarda quel foglio. Il tatuaggio di Matilde. Quello che non farà mai. «I’ve got this life.
I’ll be around to grow. Who I was before I cannot recall». Mentre pensa a Matilde, la vede arrivare. È di corsa e in compagnia di un ragazzo alto e spettinato. Si fermano sotto l’installazione. Vorrebbe correrle incontro.
Sapere se quello è il suo fidanzato. Dirle che l’accompagnerà lei a fare il tatuaggio. Che non deve avere paura. Che non serve ricordarsi il passato, perché possono scrivere insieme il futuro. Ma non si muove.
Sua figlia inizia a ballare. Si gode lo spettacolo. Ancora una volta spettatrice della sua stessa vita. «Olà Pang! Poiché il funesto gong desta la reggia e desta la città…». All’improvviso la sirena. Quella sirena. Lei fa ancora fatica a digerirla. Per i giovani è più familiare. La sirena anti-assembramento. Quando l’allerta pandemia sale, le telecamere delle piazze rilevano la densità di persone e distanze. Se non si osservano le regole, scatta l’allarme. Subito i presenti, alcune rassegnati, altri impauriti, si dileguano. Dalle installazioni esce ora solo una voce metallica: «Mantenete le distanze di sicurezza. Indossate la mascherina. Non create
assembramenti». Ci sono anche le forze dell’ordine che provano a far defluire la folla. Queste scene Teresa se le ricordava in manifestazione, quando andava al Liceo. Quando si lottava per qualcosa. Era nell’ordine naturale delle cose. Tu protestavi. Qualcuno ti puniva. Ma cosa stava facendo ora Matilde. Era colpevole di ballare. Matilde. Dov’era? L’aveva persa. Il panico la stava assalendo. Noncurante degli inviti ad evacuare la piazza, Teresa si getta verso la gente, come quando manifestava. Sola contro tutti. Eccola.
Si trova faccia a faccia con lei. Si guardano. Matilde è scossa. La fissa. Si allontana con quel ragazzo. Lei viene strattonata via. Vorrebbe urlare. Ma non lo fa.
«Hai visto che casino che abbiamo fatto. Tutta quella gente era lì per vederti ballare. Hai capito quanto sei brava?!» Matilde cammina tirata da Riccardo verso l’esterno della piazza, ma non può far a meno di continuare a girarsi per rivedere quel volto. L’ha perso tra la folla.
«Matilde, tutto bene? Sembra che tu abbia visto un fantasma!».
«Forse sì. Mi è sembrato di vedere mia madre».