Come sta l’informazione oggi? Lo abbiamo chiesto allo scrittore, editorialista e giornalista del Corriere della Sera, Antonio Ferrari
Antonio Ferrari, cronista, editorialista e scrittore e giornalista del Corriere della Sera. Abbiamo avuto l’occasione e l’onore di incontrarlo per indagare sul concetto di giornalismo e scoprire come sta l’informazione oggi. (Per chi volesse approfondire, è possibile guardare l’intervista completa sulla pagina Facebook del Bullone)
Cos’è il giornalismo oggi?
«È una grande speranza e una grande delusione. Si stanno perdendo i criteri del vero giornalismo, anche causa delle scuole di giornalismo. Per me giornalismo infatti significava “cronaca”: si devono utilizzare le gambe, la testa e la mano, per scrivere. Parlo di cronaca perché bisogna avere l’umiltà di andare a cercare le cose. Io stesso ho scelto il giornalismo perché sono curioso come una scimmia, e il giornalismo mi arricchisce. Adoravo la sensazione di partire e andare all’avventura, di emozionarmi per gli altri. Invece la delusione, perché vedo che oggi c’è approssimazione. Si pontifica piuttosto che accettare i fatti».
Si può dire che oggi manca un po’ il senso giornalistico?
«Sì, oggi c’è un’appartenenza che dà molto fastidio, l’essere iscritti a qualcosa. E questo è sbagliatissimo».
Chi è oggi un giornalista?
«Io giudico un giornalista per due cose: l’umiltà e la bravura nello scrivere. Oggi però conta di più sostenere una parte politica (anch’essa diventata modesta per mancanza di spirito)».
Prima dell’intervista parlavamo dell’ enciclica di Papa Francesco…
«È un ponte tra l’illuminismo e il cattolicesimo, tra il laicismo e la fede. Racconta che siamo tutti fratelli, senza distinzioni, e questo detto da Papa Francesco è straordinario. È il documento più laico che esista, soprattutto di questi tempi (dopo la grave crisi che c’è stata in Vaticano), sentir parlare il Papa di cose del genere, credo che sia fondamentale. Sento che Papa Francesco è il Papa dei credenti, ma anche dei non credenti».
Come si racconta un mistero? Lei ha parlato nei suoi libri di Moro e di Tobagi romanzandoli. Come si costruisce la verità?
«Il romanzo è l’unico modo di raccontare la verità, perché permette di alterare quelle piccole cose che rendono compatto un messaggio. La vicenda di Moro l’ho seguita attentamente e secondo me si intreccia con quella di Tobagi. Ricordo di essere stato a Genova con Tobagi, il 28 marzo dell’80, in via Tracchia, dove c’è stata una strage di brigatisti in una casa. Era tutto occupato dai carabinieri e noi e la polizia non potevamo entrare. Sapevamo che c’era qualcosa che non andava, infatti i carabinieri trovarono sepolte nel giardino di quelle casa, tutte le lettere di Moro, di cui noi conosciamo solo una piccola parte. Chi non doveva conoscerle? Ce lo siamo chiesti molto io e Tobagi nei suoi ultimi giorni di vita. In parte, la riapertura del caso Moro sotto il governo Renzi, è stata anche merito del mio libro. Poi è finito il governo ed è finita la commissione».
Ha mai conosciuto la paura?
«No, per settantaquattro anni. Ma ho fatto cose che adesso non rifarei più. Ad esempio, con un amico napoletano passare la frontiera sotto gli elicotteri israeliani e per non farci scambiare per terroristi ci mettemmo a cantare O’ Sole Mio».
Cos’è la verità? Come si cerca? Chi la cerca?
«Spero sempre che sia un giornalista a cercarla. La verità forse è impossibile da raggiungere. La mia idea è che bisogna scrostare tutte le bugie che sono attaccate al nocciolo centrale, che forse non raggiungeremo mai, ma almeno avremo sicuramente eliminato quello che è falso. Si cerca la verità avvicinandosi ad essa… e poi facciamo quel che possiamo».
C’è chi si mette ancora in prima linea per cercarla?
«Sì, ce n’è una lista, in tutti i media, ma non è lunga. Ci sono giovani che preferiscono stare sempre in ufficio e pensare, senza andare a cercare. In televisione come Maria Cuffaro o Elisabetta Rosaspina al Corriere, o Stefano Montefiori, Paolo Valentino. Loro sono giornalisti che graffiano, come dovrebbero fare tutti i giornalisti».
Il tuo giornale non ti ha mai censurato? Ti ha mai impedito di scrivere quello che per te era giusto scrivere?
«Censurato mai. Ci sono state delle difficoltà, ma censurato mai. Ci sono molti mezzi per frenare una persona, moltissimi, ma loro sanno come sono. Io ho una storia all’interno del Corriere, le ho viste tutte, almeno negli ultimi 50 anni, però mai nessuno mi ha davvero censurato, nemmeno le persone iscritte alla P2 – una loggia massonica deviata guidata dal criminale Licio Gelli, che controllava anche il Corriere della Sera attraverso i soldi del Vaticano, la direzione e l’amministrazione -. Io a quel tempo mi occupavo di P2 e si scoprì che Di Bella (il direttore) ne risultava iscritto, così come tutte le altre teste. Vorrei fare un pensiero per una donna piena di coraggio in tempi molto difficili, Tina Anselmi, che fece un’indagine parlamentare su tutte le porcate compiute dalla P2. Si scatenò su di lei un odio strisciante».
Come un giornalista può e deve interfacciarsi con personalità criminali e raccontarle senza giudizio come lei ha fatto con Walid Khalid?
«Più che terrorista (ed era un terrorista) era il numero due di Abu Nidal. A un certo punto mi viene a trovare in albergo a Damasco, si siede e mi dice “parliamo”. Volevano l’autonomia, davano del traditore ad Arafat. A voler intervistare Khalid c’era anche una mia collega americana, Elain Sciolino del New York Times, alla quale io stesso diedi il numero di Khalid. Ricordava e chiedeva spiegazioni per l’attacco a Fiumicino, la risposta del terrorista fu “In order to hit the heart, you ave to cut the veins” (per colpire il cuore, devi tagliare le vene). La mattina dopo lei venne arrestata e liberata dall’ambasciata americana dopo una furiosa protesta. Ecco questo è il ricordo di Walid Khalid e di Elain Sciolino».
In una società come quella di oggi, in questo preciso momento storico, cosa significa stare bene secondo lei?
«Non pensare ai soldi, accontentarsi di quello che hai. I soldi servono in maniera misurata per vivere bene, per il resto no».
Quel è il senso di essere un giornalista e di un’intervista?
«Far dire a qualcuno quello che lui non ti vuole dire. Senza mai arrivare a offendere. Questo è molto importante. Bisogna saper grattare».
Che giornale fonderebbe oggi?
«Il Bullone! Non so, non so se fonderei un giornale. Ultimamente lavoro tanto con Corriere TV, non perché voglia tradire la carta stampata, ma perché sono convinto che per arrivare ai giovani oggi devo usare tutti gli strumenti. Con Corriere Tv ho un successo davvero insperato e do un contributo più moderno al mio Corriere della Sera, che amo. Mia moglie sostiene che la mia prima moglie sia il Corriere e forse non sbaglia. Il Bullone lo trovo benissimo perché vedo la voglia di capire e di conoscere e vorrei tanto che questo dolce veleno (nel senso positivo) si diffondesse un po’ dappertutto».