Che Internet e i Social Network siano diventati terreno fertile per la finzione è ormai noto. Fake News, profili falsi, bot con cui conversare e trolls da cui difendersi proliferano in rete. Il web è diventato un luogo dove l’influencer virtuale Lil Miquela è seguita da mezzo milione di followers, mentre a noi viene chiesto di dimostrare di non essere dei robot (quanti di voi si sentono sotto esame, mentre cercano di individuare i semafori o le strisce pedonali o gli idranti dei captcha code?).
L’inversione della realtà ormai è avvenuta. La rete sembra lo scenario di un racconto di Philip K. Dick. Uno degli aspetti più inquietanti della finzione sul web, però, è quello che coinvolge il nostro modo di mostrarci sui Social Network. La necessità di approvazione sociale, fenomeno che è sempre esistito, oggi grazie a Facebook, Instagram, TikTok (per citare i più famosi) è più immediata e, soprattutto, misurabile in termini di like. Pubblico una foto, attendo l’approvazione altrui, mi sento meglio. In termini psicologici questo meccanismo si chiama rinforzo positivo e fa leva sull’area del cervello chiamata Nucleus Accumbens, dove un complesso sistema neuronale è pronto a rilasciare dopamina (l’ormone della felicità) a ogni consenso, a ogni mi piace. Da qui la necessità di pubblicare contenuti interessanti e che rispondano a un modello.

Fingere, dare forma
Non si tratta più di proporre se stessi in tutte le sfumature (i social erano nati con l’intento di condividere la propria vita con gli altri), ma offrire solo ciò che di se stessi possa funzionare. Finiamo per dare una forma predefinita alla nostra personalità. È curioso pensare che la parola fingere, derivi dal latino fictus, che vuole dire dare forma. Sui Social Network, quindi, noi fingiamo. Più precisamente rispondiamo a un’esigenza della società: quella di essere sempre felici. L’Euforia Perpetua la chiama lo scrittore francese Pascal Bruckner: «Il dovere di essere felici è l’ideologia dominante di questi anni, quella che ci impone il godimento a tutti i costi. È un’ideologia euforica, che rifiuta la sofferenza e il disagio». La malinconia, la tristezza, la noia e la sofferenza sembrano non aver posto in questa società. Sono degli incidenti di percorso. Malattie da sconfiggere. Come nel romanzo, così preveggente, del 1872 di Samuel Butler, che narra della città di Erhewon, un luogo in cui i malati venivano messi in prigione, le persone tristi bandite e l’esclusione dei marginali era principio fondante di giustizia. Tornando ai giorni nostri, anche la Costituzione Americana cita la ricerca della felicità come diritto inalienabile. E se la felicità diventa legge, il rischio è che diventi anche un dovere.

Non fare a meno della felicità
S’insinua dentro di noi la sensazione che se siamo tristi non funzioniamo, non performiamo, stiamo fallendo. Per questo iniziamo a mentire agli altri e anche a noi stessi. La perfetta messa in scena di questa finzione la troviamo sui Social, dove sembra vengano vissute vite meravigliose. Una rincorsa a pubblicare i viaggi più belli, gli eventi più interessanti, gli outfit più accattivanti, le conoscenze più stimolanti. Risate, divertimento, soddisfazioni, relazioni perfette, lavori appaganti, fisici in forma. Una vita fittizia, passata sotto il filtro della felicità. È vietato mostrare le fragilità e le debolezze. Si rischierebbe di perdere consensi e destabilizzare un equilibrio già precario, perché affidato all’approvazione altrui. Astraendoci dall’aberrazione che questo fenomeno sta subendo nel web, il voler mostrare agli altri il proprio lato gioioso non è di per sé una colpa e neanche un meccanismo completamente sbagliato. Leader spirituali come il monaco Thich Nhat Hanh incoraggiano a sorridere, sottolineando come l’atto meccanico del sorriso finisca per renderci davvero contenti. Pertanto anche fingere di essere felici a volte può diventare salutare. Il rischio, però, è l’esigenza di essere solo quella cosa, di essere solo felici. Mostrando un unico aspetto di noi si perdono le infinite sfumature della tavolozza di colori che ci rende così interessanti e diversi l’uno dall’altro. La felicità, poi, decide lei quando arrivarti addosso ed è fatta di attimi effimeri, che non si possono cristallizzare. Forse amare davvero la vita non vuol dire essere felici 365 giorni l’anno. Forse amare davvero la vita vuol dire accettare tutti colori della tavolozza e fuggire da un mondo monocromatico.