I ragazzi del progetto Exodus nella comunità de La Mammoletta

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Di Oriana Gullone

Sul sito del progetto Exodus si legge: «Il nome Exodus richiama direttamente il racconto della liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù d’Egitto attraverso un lungo viaggio nel deserto del Sinai. L’Esodo biblico è il paradigma di tutti i cammini di liberazione. È il nostro viaggio personale e di gruppo».

Il progetto nasce nel 1984 da un’iniziativa di don Antonio Mazzi, a Milano, al parco Lambro, il «regno dello spaccio», per usare le stesse parole del don.

La Fondazione Exodus

La volontà del don di risanare l’area, con la collaborazione degli stessi tossicodipendenti, dei cittadini e delle forze dell’ordine, dà inizio a una vera e propria rivoluzione che molto presto oltrepasserà i confini metropolitani.

Ad oggi sono una ventina le sedi e le case in Italia, il progetto ha coinvolto negli anni tutti coloro che vivono situazioni di forte «disagio sociale»: tossicodipendenti, malati di AIDS, extracomunitari… Nel 1986 don Mazzi integra all’interno delle comunità anche alcuni ex-terroristi, che scontano la loro pena rendendosi utili agli altri.

L’approccio è educativo, lo scopo è cambiare il senso di relazione tra esseri umani. «Pertanto non si ferma solamente a mettere qualche “cerotto” a chi inciampa, ad aggiustare i “pezzi scartati”», non saprei raccontarlo meglio di come si trova sul sito ufficiale, «la scelta dell’itineranza, dello stile di vita sobrio, dell’operosità, dell’accoglienza rispettosa, dell’aiuto agli altri come modo per aiutare se stessi, non sono solo valori proposti agli ospiti delle comunità, ma sono anche indicati come prospettiva di cambiamento possibile per le nostre città e per il Paese».

La comunità La Mammoletta

Incontriamo, a distanza, i ragazzi de «La Mammoletta», sull’isola d’Elba. Sono tutti insieme in salone. Noi spezzettati a quadratini sul loro schermo. Un po’ li invidio, le nostre riunioni affollate e caciarone mi mancano.

«Siamo qui da dieci anni», ci raccontano, «sotto il comune di Portoferraio, ma la casa è nata nel 1990 a Lacona, comune di Capoliveri. Ci hanno praticamente cacciati via, davamo fastidio. Ma è proprio quel fastidio che ci ha dato nuova linfa per ripartire. Per scrivere nuove storie».

La comunità di Lacona, negli anni 90 ospitava soprattutto giovani adulti tra i 20 e i 35 anni. Adesso alla Mammoletta sono soprattutto adolescenti, molti non ancora maggiorenni.

Dovevano presentarsi uno per volta, poi confrontarsi sui temi che si svisceravano dalle presentazioni. Ma non è andata come previsto. Ed è stato un continuo rimpallo di riflessioni, opinioni, racconti di vita…

Iniziano i ragazzi all’Elba, mettendosi al centro del salotto, per farsi sentire e vedere meglio: «Qui ci regalano certezze vere, assorbiamo valori che dovrebbero essere primari. È un posto magico per tutti quelli che ci passano».

Le storie dei ragazzi di Exodus

Il futuro, il domani, è la prima riflessione: «Il domani è un concetto importante. Cambia molto ed è cambiato molto in questo anno di pandemia».

«Per me quest’anno è come se avesse congelato tutto. Non mi sembra sia passato un anno, da un anno fa…».

«Sono felice di avervi incontrato. Il lavoro che fate è potente. È importante dare al mondo il nostro sguardo». Lo sguardo, il vedere, altro tema che tocca le corde giuste: «Da quando sono qua ho scoperto un mondo di cui non mi ero mai accorta». «Mi è venuta in mente un’immagine del film La Storia Infinita: il protagonista affronta la prova dello specchio magico, che restituisce l’immagine del suo vero io. Gli raccontano che valorosissimi cavalieri prima di lui, sono scappati terrorizzati alla vista di una versione di sé completamente inaspettata, dolorosa, spaventosa… Il percorso che voi state facendo alla Mammoletta, quello che noi B.liver stiamo facendo con la malattia, è lo stesso. Ci siamo “scoperti” in quello specchio e abbiamo abbracciato quello che abbiamo trovato. Tante persone non si specchiano proprio, o fanno finta di non vederne il riflesso».

«Abbiamo imparato a far pace con lo specchio e con le cicatrici che ci rivela».

«Comunque il percorso non è semplice. L’aiuto che ricevi è una corda che devi prendere al volo e tirare. E fa male. Non è sempre piacevole».

«Sì, so come ci si sente a provare dolore mentre ci si sta salvando».

Dopo un momento di silenzio, arriva una domanda diretta: «Ma andate a scuola? Come vi ci sentite?».

I ragazzi e la scuola

«È strano. Spesso abbiamo percorsi molto diversi dai nostri coetanei».

«Che è quello che succede ai B.liver, è normale, ed è giusto così, è giusto che gli altri non abbiano i vostri stessi pensieri. L’importante è capire che un saggio che sta zitto non serve a molto. Come non serve un saggio che parla, ma non si fa capire. La vostra saggezza è preziosa, bisogna fare in modo che arrivi chiara».

«Sulla scuola stiamo discutendo molto, sai? Vorremmo che, più che conoscere a memoria Giuseppe Garibaldi, fosse importante chiedersi “come stai”, scoprire cosa hanno dentro davvero, questi ragazzi».

«È faticoso parlare di un’emozione. Specialmente quando non sai darle un nome».

«Quello che ho visto in tutti i contesti simili al vostro e al nostro, è quanto sia fondamentale trovare qualcuno che ti veda. E che ami il tuo buio. Anche prima che impari a farlo tu».

Mi sono accorta del tempo passato solo per la batteria dell’iPad che mi ha abbandonato. Sembrava di aver appena fatto una delle «nostre» riunioni. Di pensare all’unisono. Di parlare la stessa lingua.

Chissà se don Mazzi, 37 anni fa, sapeva che la sua rivoluzione era, in realtà, appena cominciata…

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