Quando nelle comunità si sospende la vita reale

Autori:

Di Elisa Tomassoli e Alessia Piantanida

Parlare di Disturbi del Comportamento Alimentare non è facile, e chi ne soffre spesso non ne parla per il timore dello stigma che accompagna l’essere affetto da queste patologie, io stessa non saprei usare i giusti termini; pertanto, Alessia ed io abbiamo messo da parte la nostra storia, per lasciare parlare un grande dottore, che ha dato voce al disagio di tante persone: il dottor Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicanalista che si occupa della cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare.

Per chi non conosce la grande famiglia dei disturbi alimentari, quali sono le differenze tra un percorso terapeutico in una comunità, un ricovero ospedaliero e un Day Hospital?

«Ci sono delle differenze formali che hanno a che fare con l’intensità della cura: per quanto riguarda ciò che l’equipe può fornire ai pazienti, il ricovero ha un livello di intensità medio, la comunità ha un livello di intensità terapeutico elevato, in quanto le figure professionali sono presenti 24 ore al giorno accanto ai pazienti, mentre l’ambulatorio ha un’intensità limitata. Sul versante dei pazienti, la differenza sta nell’investimento che si fa nella cura, che a livello ambulatoriale è minimo e che permette al paziente di investire su altri aspetti della propria vita: c’è un tempo da dedicare alla cura e uno da dedicare alla propria esistenza, e le due cose si devono poter autoalimentare; nella comunità si sospende la vita reale, ci si dedica completamente al percorso terapeutico per poi poter rientrare nel percorso della vita. Tutti e tre i livelli hanno ovviamente i pro e i contro e ci si orienta a seconda dei bisogni dei pazienti verso il percorso più giusto».

Che cosa dovrebbe fare un’equipe terapeutica, piuttosto che una famiglia di fronte a un paziente che non si vuole curare?

«Insistere e mai darsi per vinti facendosi prendere dalla disperazione: voglio essere sincero dicendo che non per molti casi, fortunatamente, si arriva a un certo punto in cui la malattia prende il sopravvento. La paura di vivere supera la paura della morte e questa è la condizione più pericolosa che bisogna evitare: si arriva al punto in cui la famiglia e l’equipe devono, con tutte le forze, impedire che si arrivi a quel punto di non ritorno, sapendo però che ci si potrebbe arrivare e capire che cosa fare, poiché insistere potrebbe essere anche più nocivo. Bisogna pensare, dal punto di vista dei terapeuti, che non tutti i disturbi alimentari nascono complicati, ma lo diventano: la scommessa è mettere in campo da subito qualcosa, prima che la situazione si complichi in modo irreversibile».

Quando si parla di insistere, fino a quanto sono legittimati quegli approcci coercitivi?

«Spesso vengono adottati degli atteggiamenti sanitari coercitivi che da parte del paziente vengono vissuti come meccanici pur non essendolo: limitare la libertà è un atto molto forte. Rispondo a questa domanda con una metafora che utilizzo spesso nel contesto ospedaliero in cui lavoro: noi dobbiamo trasformare l’ossessione per la bilancia con una discussione che ha a che fare con un altro bilanciamento: la bilancia di cui voglio parlare è quella di limite e responsabilità. Noi, come medici e terapeuti dobbiamo porre un limite al sintomo, ma questo limite non deve scavalcare lo spazio di responsabilizzazione che il ragazzo deve mettere in campo, per imparare a governare il suo malessere e imparare a superarlo. Il paziente vede tutto ciò come conflittuale: bisogna comprendere che il ragazzo è dentro alla malattia che per lui ha un senso che può essere di forza, tranquillità o superamento; non bisogna dimenticare che si diventa affetti da un disturbo alimentare per un motivo che deve essere scoperto insieme».

La struttura di Villa Miralago, il centro per la cura dei disturbi alimentari in provincia di Varese, di cui il Dr. Mendolicchio (nella foto sopra) è stato per anni il direttore sanitario

Perché all’inizio dell’ingresso in comunità si viene isolati dal mondo esterno, non potendo vedere amici, genitori e senza la possibilità di utilizzare il telefono?

«Questo è un retaggio che abbiamo nel vedere la cura in modo antico: generalmente, ma non sempre, se si isola il paziente da un mondo che sostiene particolari abitudini, agevoliamo il percorso di cura. Adesso sto avviando una nuova esperienza professionale all’Ospedale San Giuseppe di Piancavallo, diverso dalla comunità, i cui si mettono in campo dei metodi di cura differenti: mi sto molto interrogando su come le prassi che utilizzavamo in comunità non si possono utilizzare in un ospedale; è fondamentale non assolutizzare le regole».

Durante il lockdown, il numero di ragazzi e ragazze che soffrono di disturbi alimentari è aumentato esponenzialmente, colpendo fasce d’età sempre più giovani: come ci si spiega questo fenomeno?

«Questo effetto non si può arginare, ma bisogna cercare di farsi trovare preparati: già in tempi di pace non si era preparati, perché le risorse per le persone affette da disturbi alimentari erano scarse; ora la domanda è raddoppiata, e bisogna cercare di capire cosa mettere in campo in termini di risorse e personale pronto e preparato ad affrontare la situazione. Con il Covid c’è stato un doppio effetto deleterio, poiché i servizi di cura sono stati ridotti e messi in condizione di non potersi dedicare a pieno alle esigenze del paziente, con una diminuzione del raggio di azione dei sistemi di cura; dall’altro lato, è aumentato il disagio alimentare, perché chiusi in casa con angosce, paure e senza cure, molte situazioni già fragili sono peggiorate».

Come si può parlare di disturbi alimentari?

«Si può pensare di farlo dando parola ai pazienti: basta con i soloni accademici che vanno in televisione a descrivere che cos’è l’anoressia o la bulimia, le ragazze che vivono questo problema possono diventare artefici di questa esperienza di vita dando loro una dignità di esistenza. Non dimentichiamo che i DCA per molte persone che gestiscono i sistemi sanitari non esistono: su queste malattie c’è ancora uno stigma feroce che colpisce la scienza, la cultura e la politica ed è questo che tutti noi dobbiamo cercare di contrastare».

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