Qui il discorso che Gandhi fece in occasione della Marcia del sale
Infrangere le leggi
Lotta, guerra, sono due termini a cui Gandhi fa riferimento più di una volta in questo celeberrimo discorso.
Lotta e guerra, due termini violenti che tutti siamo portati ad interpretare come aggressioni fisiche, come armi cariche pronte a far fuoco, come dolore, sofferenza. Parole che identificano, senza nemmeno avere un verdetto, un vincitore e un vinto.
Nonostante le immagini che suscitano queste parole, il discorso continua con «è necessario che non si manifesti neppure una parvenza di violenza anche dopo che noi saremo arrestati. Noi abbiamo fermamente deciso di far ricorso a tutte le nostre risorse per portare avanti una lotta esclusivamente non-violenta».
Come possono due termini contrapposti come lotta e non-violenza convivere? Come può una lotta essere non-violenta?
Oggi siamo abituati alle manifestazioni, ma qui non c’entrano cartelli di protesta. Gandhi, durante la Marcia del Sale, chiede a tutti i partecipanti volontari di violare apertamente le leggi che il regime britannico ha imposto sul sale.
Disobbedienza civile alle leggi, una richiesta anarchica aperta a tutti i cittadini dell’India. Produrre, vendere (e contrabbandare) e asportare sale dai depositi, era proibito dal regime britannico che ne deteneva il monopolio.
Infrangere apertamente le leggi dello Stato e dichiarare pubblicamente guerra al regime senza venir a meno della pace, questo era l’obiettivo.
Consapevole del fatto che sarebbe stato arrestato, esorta i volontari a prendere come guida Paṇḍit Jawaharlal, futuro Primo Ministro indiano.
Forte della teoria etica Satyagraha alla base della disobbedienza civile elaborata dallo stesso Gandhi e fondata sulla non violenza e la resistenza passiva, il Mahatma porta avanti quello che rimarrà come uno dei momenti più alti della storia dell’umanità.
Conoscere la storia significa imparare a non ripetere gli errori e le atrocità che si sono commessi durante i secoli, ma anche a trarre esempio dai successi.
«La causa della sconfitta di un satyagrahi, dunque, può risiedere soltanto nel satyagrahi stesso», ribadisce Gandhi chiudendo il suo discorso.
Fiducia e coraggio
Di Laura Amedeo
«Devi sudare sangue per ottenere davvero ciò che vuoi», quante volte ce lo si sente dire? Lottare per ciò che si desidera, lottare per far valere i propri diritti, lottare per far sentire la propria voce. È una lotta, una lotta che sfocia inevitabilmente nella violenza, o contro se stessi perché si soffre, o contro gli altri perché non si fa mai una lotta da soli.
Ma è davvero necessaria la violenza per ottenere qualcosa? Gandhi è riuscito a liberare l’intera India dal dominio inglese con azioni pacifiche, evitando gli scontri e promuovendo la non-violenza. Credo che lui sia un ottimo esempio del fatto che si possano ottenere grandi cose, grandi cambiamenti senza violenza.
Sono necessari però coraggio e grande fiducia in se stessi. Il cambiamento, prima di avvenire altrove, parte da se stessi. Noi dobbiamo essere sicuri, determinati, fiduciosi, mai arrendevoli; dobbiamo avere un’enorme forza di volontà e autocontrollo. Noi siamo la guida del cambiamento. Dobbiamo appoggiarci su noi stessi, prendere forza da noi stessi; siamo noi che decidiamo di azionare la leva per muovere un braccio, siamo noi che iniziamo. Ecco, noi siamo il principio, ma talvolta abbiamo bisogno di una spinta, di un aiuto, di un supporto ed è qui che entra in gioco la collaborazione con gli altri. È necessaria unità e coesione per costruire una funzionale e ottima forza lavoro: insieme è meglio che da soli.
L’umanità del leader
Rivedendo le gesta di Gandhi nell’evento che terminò il 5 aprile 1930 «La marcia salata di Gandhi» e la sua capacità di utilizzare la non-violenza come principale ideale di vita, dimostra quanto siano più forti la purezza d’animo, la semplicità, l’umiltà e l’onestà nell’affrontare la vita.
Questa capacità che Gandhi aveva lo rendevano un leader più che moderno e infatti oggi i corsi attuali di leadership hanno ereditato questa filosofia, insegnando che il vero leader è quello che parla e ascolta i suoi collaboratori e si mette sempre in prima persona per qualsiasi situazione negativa, stimolando gli altri nel migliorarsi, usando gli stessi mezzi da lui adottati. Queste doti che Gandhi esprimeva vengono oggi utilizzate per formare e preparare i manager che governano aziende, banche, partiti politici.
Lui era una vera guida, troppe volte nella storia invece, si è abusato di questo termine per indicare i leader che hanno segnato i popoli coi loro regimi totalitari. Esistono vari tipi di leader, come capi dell’esercito, capi politici o capitani d’azienda, dove ognuno di questi, anche se diverso dagli altri, vive come se si credesse immortale, ma non impara, non o non vuole ascoltare, perché lui è IL CAPO!
Gandhi ci trasmette le linee guida che oggi come non mai un buon leader deve seguire e la prima pillola che ci «prescrive» è proprio quella dell’umiltà: il leader è consapevole delle sue capacità, sa il fatto suo, ma sa anche che può sempre imparare dai suoi seguaci e migliorarsi. È finita l’epoca dei «despoti illuminati», ed è giusto riconoscere al leader la sua dimensione umana e la possibilità di sbagliare. Leader potrebbe essere ognuno di noi ogniqualvolta venga messo a capo di un progetto. Persino in un gruppo musicale, o in un gruppo di amici emerge sempre quella figura più coinvolgente che traina e modera le idee del gruppo.
Ed è proprio qui che posa l’eccezionalità di Mohandas Gandhi, tanto che da molti è ormai preso come modello di «Leader Trasformazionale». Conosciuto come il Mahatma (Grande Anima), è passato alla storia per aver guidato il popolo indiano nella sua rivolta non violenta al colonialismo inglese, durante la prima metà del Novecento.
In conclusione, dalle frasi che abbiamo ereditato da Gandhi, ne cito una che a mio avviso racchiude la sua essenza di vita e, soprattutto in questo momento politico italiano, deve essere interiorizzata da chi ci governa per migliorare e migliorarsi: «Dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere».
Il 2 ottobre per Gandhi
Di Ivan Gassa
Della «Marcia del sale», organizzata in India da Gandhi circa 90 anni fa, penso si sia detto praticamente tutto. Commentandola diventa molto difficile non cadere nella retorica o nella banalità. La scintilla, come in tutte le grandi proteste, scoccò quando l’Impero Britannico introdusse una tassa sul sale, del quale era monopolista, scatenando il malcontento nel ceto più povero già provato da profonde ingiustizie. Cosa la fece diventare così importante, fu il fatto di essere stata la prima grande protesta non violenta. Fino ad allora le varie lotte contro le ingiustizie sociali erano sfociate in episodi cruenti, se non addirittura in rivoluzioni o guerre. Gandhi predicò questa nuova forma di protesta perché profondamente convito che la violenza non si combatte con la violenza. Anche lo svolgimento fu alquanto insolito, fu una marcia di oltre 300 chilometri, dal 12 marzo al 5 aprile 1930, per arrivare a Dandi, dove si trovavano le saline e simbolicamente prenderne una manciata in segno di disobbedienza verso un’ingiustizia. Da qui presero spunto, successivamente, altri movimenti che fecero propri i principi della non violenza. Ad esempio, gli anni 60 videro il modo Hippie condannare ogni forma di violenza con il famoso «Peace and love». Sempre negli anni 60 Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli Afroamericani, sposò la causa della non violenza nonostante le tensioni socio-razziali negli Stati Uniti fossero arrivate al limite della guerra civile. Per non parlare delle grandi marce di protesta in occasione della guerra nel Vietnam negli anni 70, con diverse migliaia di partecipanti e famosi «Sit in». Per arrivare fino ai giorni nostri, dove in tutte le parti del mondo nascono movimenti con questa filosofia. Così, per volere delle Nazioni Unite, «Il giorno della non violenza» si celebra il 2 ottobre, data di nascita del Mahatma Gandhi. Non so se il suo credo sia la soluzione, ma penso sia l’unica via percorribile, la «via del sale».