Tutte le dimensioni della sessualità spiegate da un sessuologo.

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Di Oriana Gullone

Per entrare nell’immenso universo della sessualità abbiamo raccolto e rivolto domande, dubbi e pensieri al dottor Massimo Di Grazia, sessuologo e psicoterapeuta della Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano e docente di Psicologia della Sessualità all’Università degli Studi di Padova.

Il dottore introduce così l’argomento:

«È importante considerare la sessualità attraverso dimensioni diverse: quella biologica, quella culturale/sociale, quella associata a relazione ed affettività, all’incontro con l’altro, e la dimensione ludica, di solito la più ricca di tabù. Infine, aggiungo, l’importante dimensione generativa e genitoriale. La prima domanda da farci è: quanto siamo liberi di parlarne? È un ambito pieno di tabù, che creano freni, anche molto importanti, alla comunicazione e all’azione. È fondamentale prendere contatto col proprio corpo, senza mai dimenticare che è fortemente collegato alla mente. Se non “incontro” me stesso, non potrò serenamente incontrare l’altro. Dobbiamo far pace con noi stessi, col nostro corpo, con i tabù. La sessualità è alla base di tutto, come mangiare o dormire. È lampante già nei bambini, dove la dimensione della conoscenza è forte e decisiva per la crescita».

Il primo grande tema che i ragazzi hanno chiesto di affrontare è quello dell’identità sessuale…

«Per approfondire questo argomento partirei da quattro elementi fondamentali. Quello biologico, intanto. Nascere uomo o donna condiziona naturalmente aspetti come organi genitali, ormoni. Poi c’è l’identità di genere, che è questione molto intima, legata a come ci si sente e ci si rappresenta, non necessariamente parallela all’aspetto biologico: posso identificarmi come uomo, come donna o sentirmi fluido e riconoscermi nell’uno o nell’altro in momenti diversi. Un altro elemento è poi l’orientamento sessuale, che riguarda prettamente l’attrazione che sento per un’altra persona, di cui finalmente oggi si può parlare con un pochino più di serenità (l’omosessualità è fuori dall’indice dei disturbi mentali solo dal 17 maggio 1990). Secondo alcuni studi, siamo potenzialmente fluidi per tutta la vita, oscillando tra etero-omo-bisessualità. Sono inoltre finalmente riconosciute anche altre realtà, come quella dei pansessuali, in cui l’innamoramento è verso l’essere umano, indipendentemente dal sesso o dal genere; o gli asessualidove non c’è attrazione affettiva, ma si pratica sesso senza preferenze di genere -, che prima non sapevano identificarsi nelle “categorie” esistenti. L’altro aspetto importante da affrontare in questo periodo storico, è quello del ruolo di genere, quello che ci ha imposto di pensare a mestieri da maschio o da femmina, o ai ruoli nella coppia, mentre posso avere un ruolo di genere diverso a seconda della situazione, lavorativa, affettiva, ecc… Addirittura una volta la disforia di genere veniva “diagnosticata” rispetto a con che cosa si giocava da bambini. Ma si parla di ruolo di genere, non di identità».

Se le dico «verginità», che cosa ci può raccontare?

«È una questione interessante. C’è stata un’evoluzione opposta negli ultimi anni, poco presa in considerazione. Dal punto di vista delle donne, un tempo la verginità era un elemento di valore per la società. Oggi è uno stigma negativo, la ragazza vergine è indicata come frigida, senza desiderio, non è considerata sessualmente interessante. Questo provoca molte difficoltà emotive, problemi nella percezione del corpo, nel rapporto con l’altro. Il maschio è generalmente riconosciuto come quello più esperto. Ma spesso i giovani hanno difficoltà nel fare esperienze, nel riconoscere le emozioni affettive che nascono nell’incontro con l’altro, nell’esprimere il proprio orientamento o identità. I maschi hanno paura di essere messi in disparte. Quindi meglio non avere nessun rapporto affettivo, non parlarne, piuttosto che affrontare la verginità».

Aprendo il grande capitolo dell’educazione sessuale e affettiva, lei cosa ci può dire rispetto a quella che riceviamo, a quella che possiamo apprendere con la conoscenza di noi stessi e a quella che assorbiamo da internet o dai porno?

«Prima dell’incontro con l’altro, è importante quello col nostro corpo. È fondamentale toccarsi con gentilezza, conoscersi, scoprirsi. Ognuno ha le proprie cicatrici, che percepiamo come dannose, come barriere, limiti, senza riuscire ad accettarle. Specialmente quando è presente una “diversità”, è difficile prendere contatto col proprio corpo. Perciò la masturbazione è fondamentale, tutto parte da lì. Ed è assurdo che ancora sia vista come qualche cosa di negativo, di sporco. Io la consiglio vivamente, è come farsi una doccia con le proprie mani. Tutto il corpo è sessuato, non solo gli organi genitali. Non esplorare le altri parti fa perdere significato alla sessualità. Ogni parte del corpo dà un messaggio. Lo dico sempre anche ai genitori, lasciate stare il figlio che si carezza, si tocca. Quando la conosci, puoi fare entrare qualcun altro nella “tua stanza” con serenità. Non c’è una legge chiara sull’educazione sessuale a scuola, che è ancora basata prettamente sulla dimensione biologica, e sempre fissata a un sistema binario. Non si parla di identità di genere, di abilità, di malattie… Persino nella disabilità mentale, Veglia affermava che la sessualità è la parte più sana. Ma non se ne parla mai. Questo crea messaggi confondenti. Mancano di fatto tre delle quattro dimensioni di cui parlavamo prima. Le nuove generazioni imparano la sessualità tramite social e internet. Non riescono a integrarli con l’affettività. Questo porta spesso a gettarsi in esperienze rischiose. Lo stesso Rocco Siffredi, in un’intervista tempo fa, mise in chiaro che il porno è un’espressione di fantasia sessuale, ma non si può imparare la sessualità e l’affettività dal porno».

Ci può fare l’esempio del video di Tiktok?

«Qualche giorno fa durante un intervento in un liceo scientifico, una studentessa mi ha chiesto se era vero che se una ragazza pratica un rapporto orale, le viene la bocca fosforescente? Motivando la domanda dicendo che avevano visto un video su Tiktok in cui succedeva. Oppure c’è chi era convinto che, con rapporti non convenzionali, si rischino malattie dermatologiche o addirittura mentali. Poi c’è questa grande moda dello squirt, l’eiaculazione femminile: una ragazza si sentiva inferiore alle sue compagne, al punto da consultare un sessuologo perché aveva paura di avere qualcosa di strano. Sono informazioni da cui nascono disfunzioni reali, disagi che altrimenti non ci sarebbero».

Se non sai con chi parlarne, è facile credere a tutto quello che trovi su internet…

«I genitori per primi hanno difficoltà ad esprimersi a riguardo. È ancora un grosso tabù. Anche se siamo una generazione un po’ più evoluta della precedente. Quando poi c’è una diversità, è difficilissimo superare il muro».

Quando c’è una malattia cronica, una disabilità, come ci si può approcciare?

«Perché l’altro si avvicini, dobbiamo far pace con le nostre cicatrici. È come combattere con la nostra ombra. Possiamo essere desiderati dall’altro, dobbiamo crederci. Se faccio quel passo dentro di me, l’altro lo percepisce. Ricordo un ragazzo, aveva una situazione complessa, a livello genitale. La ragazza con cui usciva gli disse: “come faccio ad avvicinarti, se prima viene la malattia, poi vieni tu? Se sei tu il primo a mettere la barriera?”. La malattia fa parte di te come tutto il resto. Sei un essere umano che può donare e ricevere amore. È un passaggio complesso, che necessita di gentilezza in tutte le sue dimensioni. Il primo organo sessuale è nella testa, non dimentichiamocelo».

Ha consigli da darci per questa elaborazione? Come si crea un incontro quando c’è una sedia a rotelle di mezzo? Come si fa a far sì l’altro non abbia paura dell’HIV, se sei sieropositivo?

«È importante raccontarsi e riscrivere la propria storia. Fare una cornice alla sedia, all’HIV. Riconoscere le emozioni che provocano. Rabbia, perché? Bisogna dare un significato simbolico, una codifica alla rabbia, al disgusto, all’angoscia, alla paura. Perché il primo tabù è interno. Ho incontrato un ragazzo in carrozzina, sportivo di serie A, che nell’incontro con l’altro andava in tilt. Mi diceva: “Metto l’amore nella carrozzina, non dentro di me”. Prova a scrivere le parole che non vuoi sentirti dire, e quelle che vorresti sentirti dire, serve molto. Vedi quali portano conflitto. Confrontati in un luogo protetto, con chi ha esperienze diverse dalle tue. Voi lo fate, ed è una cosa bellissima. Crea un clima di sostegno. Condividere storie dà conforto».

Una ragazza ci scrive di essersi già ampiamente accettata, ma di non riuscire a sbloccare gli altri…

«Mettiti nei panni dell’altro, di cosa avrebbe bisogno? Ci sono dei tabù? Chi fa un percorso di elaborazione della malattia, come il vostro, arriva spesso a un alto livello di accettazione di sé, ma resiste al tabù del rifiuto, ha paura che l’altro dica di no. Non averne paura. Capisci il perché. È un elemento di crescita che ti carica per andare oltre. Ti permette di rafforzarti».

Un altro tema gigante è quello della fertilità e genitorialità, percorsi spesso modificati dalle tante terapie.

«C’è poca informazione sulle terapie, sia al femminile che al maschile. Ci si focalizza sull’intervenire, sull’urgenza, non su quello che accadrà dopo. È necessario un percorso di ricodifica dei due termini di accompagnamento. Non ci si può limitare a un “tanto poi potrai adottare”, perché non dà importanza al significato simbolico che queste parole hanno per quella persona. La generatività non è un aspetto secondario, è fondamentale nella natura umana. L’informazione a riguardo non è mai abbastanza».

Domande veloci: perché i trentenni, non più adolescenti, sono spesso tanto ignoranti in materia di contraccezione?

«Di prevenzione, anni fa, se ne parlava tantissimo, oggi l’informazione c’è, ma è molto distorta. Molti non usano il preservativo e inceppano in questa modalità maldestra dell’”uscire prima”. Soffrono di pochissima informazione e poco rispetto, di arroganza, data da una sicurezza, infondata, di riuscire a controllarsi».

Diceva che dobbiamo lavorare su di noi per poi aiutare gli altri, i «sani», a sbloccarsi. Non rischia di creare uno scarico di responsabilità? E alla fine ci tocca fare tutto noi?

«In un universo dicotomico, è difficile entrare in un’altra dimensione. Non è una delega, tira giù le barriere. Diventa un processo di condivisione».

Mi taglio da anni, sono border line, vorrei avvicinarmi al sesso, ma le mie cicatrici sulle braccia mi fanno, e temo facciano, paura.

«Prova a dialogare con queste cicatrici. Prenderci contatto. Dà loro un nome. La fragilità diventa un talento, se trattata con gentilezza. Attribuirgli aggettivi sessuali, anche volgari, senza vergogna, ne può fare un racconto diverso».

Arriva un’altra domanda dalla chat…

«Il piacere orgasmico durante l’atto è collegato al dare/ricevere. Se la relazione è in armonia, se c’è accoglienza, lo si raggiunge. Se non ti senti accolto, si creano difficoltà a provarlo. Ci sono anche questioni fisiche che interferiscono, ma principalmente è di natura affettivo/relazionale».

Esiste la porno-dipendenza?

«La questione della sex-addiction è molto forte ultimamente, ha collegamenti visivo-mentali molto simili a quella legata ai videogames e al gioco d’azzardo. Ma porta grossi problemi di dislocazione nel rapporto con l’altro, arrivando a perdere interesse per la realtà e non provare più piacere se non con l’immagine video».

Non ho desiderio. Potrebbe partire dall’incontro con l’altro?

«È importante vedere il proprio corpo come sessuato. Quando ti lavi, senti di cosa il corpo parla, cosa ti sta dicendo. Datti un abbraccio. Bisogna essere pronti all’incontro, non delegare solo all’altro il compito. Guardarsi con occhi diversi con una doccia, in vasca, o solo lavandosi il viso, i denti, aiuta molto».

Quando hai l’HIV dalla nascita, ti rimane sempre addosso la «sindrome da vedova nera». Che fare?

«Farci un po’ pace. Non sei la persona che infetta gli altri, ma quella che può amare e ricevere amore. Levarsi pian piano le etichette di dosso, come fossero dei post-it. È complesso, ci vuole una grossa rielaborazione, anche di relazione familiare».

Come nasce il desiderio?

«Dall’istinto a percepire e ricevere piacere».

Può esistere un discorso sessuale, ma non affettivo?

«Certo che sì. Prettamente ludico. Dobbiamo stare attenti a sperimentare cose per le quali non siamo pronti a livello affettivo. Ha dei limiti, bisogna gestirla bene per evitare situazioni e contesti pericolosi o di abusi».

Staremmo qua ancora ore, ma il tempo non è infinito. Grazie mille, speriamo di tornare a parlare presto.

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