Partimano dal tema di questonumero: io sono cultura? Loabbiamo chiesto a Marina Pugliese, storica dell’arte riconosciuta a livello internazionale attualmente dirigente dell’Ufficio Arte negli Spazi pubblici del Comune di Milano e al suo collaboratore Alessandro Oldani, conservatore dei Beni Culturali.
Durante la riunione di redazione siamo partiti da una domanda un po’ provocatoria: io sono cultura? Secondo voi, l’uomo è sempre veicolo di cultura?
Marina Pugliese: «L’arte partecipata degli anni 60 e il movimento femminista ci hanno insegnato che il privato è pubblico. Noi siamo cultura, quello che facciamo è cultura. Personalmente, negli ultimi tempi sono più natura che cultura. Anche pensando a come mi rappresento sui social media: ci sono un sacco di cavalli (ride) e pochi riferimenti a mostre o libri. Un po’ di questo deriva dalla situazione dell’ultimo anno e un po’ dal fatto che, crescendo, sento molto più stringente il rapporto con la natura».
Alessandro Oldani: «Per me, per quanto riguarda la rappresentazione sui social, è l’esatto contrario. Da quando è scoppiata la pandemia mi sto attaccando molto all’arte e alle possibilità che ci sono di incontrare gli artisti. Sento forte questo legame con la creatività e con la concretezza delle cose: non mi piacciono le mostre online, né questo andare verso il digitale. Credo che l’uomo sia arte e cultura anche in questo momento così difficile».
È passato un anno. Le nostre vite sono cambiate. Come si è modificata la fruizione dell’arte?
M.P.: «In modo radicale. La transizione al digitale ha portato cambiamenti fantastici, sui quali spero non si regredisca. Ora sto lavorando per il Comune di Milano dalla California. La settimana scorsa ho partecipato a un webinar sulla cultura e ho dialogato con Roberta Piantavigna, una restauratrice del SFMOMA (San Francisco Museum Of Modern Art), che lavorava invece da Milano. È chiaro che non si può fare tutto online e c’è una percentuale di relazione di persona che va mantenuta. L’arte visiva, soprattutto per come la intendiamo noi – partecipativa – vive una compressione con il digitale. Non è stato un anno semplice, ma abbiamo avuto tempo per pensare alle priorità. Io, per esempio, sono stata molto onorata di ricevere questo incarico sull’arte pubblica. Da ex direttore di museo, l’idea di uscire dallo spazio fisico dell’architettura e pensare allo spazio aperto, al coinvolgimento delle comunità, è stato molto vivificante: è stato un coming out. È un contatto che all’arte contemporanea serve».
A.O.: «In questo anno in cui i musei sono in una sorta di bolla in sospensione, uscire dalla nicchia confortevole del museo è stata una curiosa coincidenza anche per me. Noi ci stiamo confrontando con l’area verde, con l’arredo urbano, con la mobilità, realtà che uno storico dell’arte solitamente non affronta. E ogni giorno acquisisco informazioni e comincio a capire come muovermi. Non voglio sminuire il ruolo dei musei, anzi: sono istituzioni destinate a rimanere e ad avere una grande importanza, allo stesso tempo, però, credo che il museo debba ripensare se stesso confrontandosi col mondo esterno, con la vita e con una realtà che non è più confortevole per nessuno».
Il Covid ha messo l’accento su problematiche che forse erano già presenti: quali nervi sono rimasti scoperti in questi mesi all’interno delle realtà culturali e museali?
M.P.: «Ho da poco partecipato a un webinar che metteva a confronto la reazione alla pandemia dei musei in America e in Italia. Negli Stati Uniti i musei sono quasi tutti privati: il Covid ha determinato immediatamente i licenziamenti, che poi hanno avuto un riscontro sociale ben preciso, in quanto hanno riguardato tutte le posizioni più basse, occupate da latini e afroamericani. Questo – insieme agli omicidi di George Floyd e Breonna Taylor – ha scatenato una reazione fortissima all’interno delle istituzioni culturali: il personale si è rivoltato contro la dirigenza. Si sono generate delle rivoluzioni interne: direttori e curatori hanno lasciato, altri sono stati accusati di razzismo. È stato l’inizio di un’ondata che ha coinvolto tutte le istituzioni. In Europa, invece, non ci sono stati licenziamenti, essendo i musei quasi tutti di natura pubblica. Per contro, mentre quelli americani ottengono finanziamenti importanti derivanti dal loro rapporto con l’impresa e gestiscono le mostre autonomamente, i Paesi come l’Italia, finanziati prevalentemente dall’ente pubblico, non possiedono i proventi sufficienti per gestire le mostre e si rivolgono a società private. Questo mondo era già in grossa difficoltà e dopo un anno di chiusura è arrivato all’ipossia. Speravo che questo cambiamento portasse a un approccio diverso verso le mostre, approccio che era diventato nazionalpopolare in senso negativo. Bisogna portare una cultura di livello alle persone. Invece si era identificato il numero e la presenza con la qualità e il successo».
A.O.: «Le occasioni espositive dovrebbero partire dall’interno dei musei e non dalle società satellite. Del resto è un’economia e ha tutto il diritto di sopravvivere. Credo sia importante che le istituzioni in Europa inizino a pensare a eventi meno eclatanti e più basati su un ragionamento sentito».
Per molti anni, gli uomini hanno scritto le regole del settore artistico-museale. Fortunatamente, da qualche tempo vediamo delle donne ai vertici. Penso a lei, a Barbara Jatta, Cecilie Hollberg, Carolyn Christov-Bakargiev,.. Facendo delle ricerche, però, non ho potuto fare a meno di notare che a seguito del vostro nome compare la voce «marito». Alla professionalità femminile, viene spesso preferita la vita privata: quanta strada ancora c’è da fare?
M.P.: «Tantissima, però le cose stanno cambiando. Ce ne stiamo occupando anche noi a livello di arte pubblica: le donne non hanno monumenti. La storia delle donne non è scritta, non è celebrata. Sono passaggi lenti, ma necessari. Sta di fatto che per una donna conciliare vita e lavoro – io ne so qualcosa, perché ho tre figli – è sempre complesso. Per quanto concerne la sfera generale e museale, in Italia abbiamo sempre avuto una grande tradizione di Direttrici di musei. Negli Stati Uniti invece, è più complesso. Quando mi sono trasferita, ero stata invitata da un cacciatore di teste per un importante museo che rispecchiava i tre musei che avevo diretto a Milano, “Noi la chiamiamo, ma non sarà presa in considerazione perché i musei più importanti vengono diretti da uomini”, mi disse esplicitamente. L’immagine che gli Stati Uniti danno di sé in Europa è polarizzata tra la California e New York e non è rappresentativa di quello che c’è nel mezzo».
Lei Marina è stata assistente dell’artista Franco Mazzucchelli. Quell’esperienza le dà ispirazione nel lavoro che sta svolgendo per il Comune di Milano?
M.P.: «Sicuramente, Franco Mazzucchelli è stato per me una figura centrale. Grazie a lui sono venuta a vivere a Milano. Il suo approccio all’arte pubblica era profondamente sociale. Ed è sempre stato forte anche in me: come Direttore di museo la parte che mi interessava di più era legata all’inclusione. Penso ai progetti legati ai minori in difficoltà, agli utenti con disagio psichico, alle donne lavoratrici con figli: abbiamo provato a pensare a tutte le categorie che avrebbero avuto un beneficio dal rapporto con l’arte. Il Museo del Novecento è stato un incredibile laboratorio e probabilmente è stata anche un po’ colpa/merito di Mazzucchelli».
Alessandro, in cosa consiste il suo lavoro?
A.O.: «È difficile spiegarlo anche a me stesso. L’ufficio è nato da poco e siamo in fase di rodaggio. Sono passato dall’avere una collezione, con oggetti da gestire, restaurare e movimentare, ad altri che non ci sono e vanno progettati. Questa è la grande sfida che sto vivendo. Inoltre, con l’Università degli Studi di Milano, abbiamo avviato un lavoro di censimento dell’intera arte pubblica cittadina».
L’arte salva?
M.P.: «Sì. È l’unico ambito di azione umana che non è dettato da una funzione precisa, da regole, è libero. L’arte permette di vedere le cose in maniera non strutturata. Le invenzioni e i grandi cambiamenti sono dettati anche da un pensiero libero che esce dalle griglie».
A.O.: «L’arte salva perché, tante volte, non si capisce. A me ha sempre affascinato il non capire immediatamente le cose e per questo mi sono sempre accostata all’arte contemporanea, seppur io abbia una formazione da modernista. Credo sia importante rapportarsi a qualcosa che non è immediatamente codificabile: se ti risuona dentro, ti può dare informazioni e spunti nuovi».