«Aspetta e spera…».
Chi non ha mai pronunciato o non si è mai sentito dire queste parole? Magari accompagnate da quel tono tra il sapiente e il rassegnato, tipico di una certa saggezza popolare. Anche il vocabolario Treccani alla parola speranza recita «sentimento di aspettazione fiduciosa…». La stessa che evoca la parola spagnola esperar, che significa sia sperare, che aspettare. Questi sono alcuni esempi che hanno contribuito ad associare a questa parola l’idea di una passività quasi ottusa, di una rassegnata concezione della vita. «La speranza è un sogno ad occhi aperti», scriveva Aristotele, che addirittura la associava al fervore giovanile che si affievolisce con il passare degli anni, fino a scomparire nella saggezza degli anziani.
Il mito greco di Pandora
Questa visione ambivalente affonda le sue radici nel pensiero antico, come dimostra il mito greco di Pandora – prima donna mortale creata da Efesto – che ebbe in regalo da Zeus un vaso, con la raccomandazione di non aprirlo poiché conteneva i mali del mondo. Divorata dalla curiosità, Pandora disobbedì e lo aprì. Ne uscirono tutti i mali che si abbatterono sull’umanità: vecchiaia, gelosia, malattia, dolore, pazzia e vizio. Sul fondo rimase solo la speranza, che non fece in tempo ad allontanarsi. Solo in un secondo tempo venne liberata e si rivelò l’antidoto ai mali del mondo, seppur essa stessa un male, in quanto contenuta in quel vaso. La stessa ambiguità si riscontra nelle religioni, dove per tanto tempo il concetto di speranza è stato esaltato come «positiva consolazione naturale» e come «fiduciosa attesa della rivelazione di Dio».
Per scardinare l’aspetto di «manna dal cielo», di rassegnazione e di immobilismo bisogna aspettare il 1953, quando il filosofo tedesco Ernst Bloch scrive Il principio speranza. Bloch riesce ad unire la «speranza nella redenzione» cristiana, alla prospettiva rivoluzionaria marxista. Secondo il filosofo, l’unico strumento in grado di mettere in moto lo sviluppo storico è la capacità dell’uomo di immaginare un «non-essere-ancora» e muoversi verso di esso per realizzarlo. Questa capacità è la speranza, non più intesa come stasi, ma come movimento. Una rivoluzione del significato che ha portato Papa Francesco a riscrivere la tradizione della Chiesa, aggiungendo alla speranza quel potere di movimento: «La speranza è un vivere in tensione, sempre; sapere che non possiamo fare il nido qui: la vita del cristiano è “in tensione verso”. Se un cristiano perde questa prospettiva, la sua vita diventa statica e le cose che non si muovono, si corrompono». L’importanza di questa tensione verso un futuro diverso dal presente, risulta lampante nel racconto degli indigeni americani imprigionati durante la colonizzazione. L’antichissima cultura Indios non contemplava il concetto di futuro e nell’immaginario degli indigeni, abituati a vivere giorno per giorno, non esisteva l’idea di un domani diverso e modificabile dal presente.
La speranza e la sopravvivenza
Vedendosi rinchiusi in una prigione, quindi, hanno creduto che quella condizione sarebbe durata in eterno e si sono lasciati morire. La stessa cosa è capitata nei campi di concentramento nazisti a coloro che, sopraffatti dalla situazione, non erano in grado di progettare azioni pur minime in un futuro anche prossimo. Quello che mancava loro era la speranza.
Il contrario della speranza è la disperazione. Chi vive senza speranza non ha uno scopo e non riesce a immaginare un futuro diverso da ciò che sta vivendo, rimanendone così impantanato. Eric Fromm nel testo La rivoluzione della speranza. Per costruire una società più umana, sposta il dibattito dal piano individuale a quello sociale e riconosce nella speranza non più solo il motore dell’azione, ma addirittura della rivoluzione. Secondo il filosofo la speranza è «un momento essenziale della vita umana, rappresenta il profondo bisogno dell’essere umano di non essere passivo e manipolato». Secondo Fromm l’unico modo per costruire una società più umana, è che il singolo muti il proprio atteggiamento. Lo strumento per farlo passa attraverso la speranza che trasforma le persone da passive ad attive, che agiscono per creare una società diversa. La speranza va pertanto costruita per la nostra sopravvivenza, ma anche per quella della specie. E si costruisce ogni volta che non ci si accontenta e ci si impegna per cambiare le cose. Ogni volta che non si permette alla vita di indurirci. Ogni volta che, anche si pensa di non essere in grado di rialzarsi, ci si prova ugualmente. Ogni volta che non ci si nasconde dietro a cicatrici, ma si comprende la bellezza delle fragilità. Ogni volta che al posto di scoraggiarsi si rinnova la fiducia negli altri. La speranza si costruisce dentro di sé, ma poi va portata nel mondo, per contagiare anche chi ha deciso di rinunciarci. Perché «chi ci ha già rinunciato e ti ride alle spalle forse è ancora più pazzo di te».