Di Elisa Calabretta
Anno 2021. Più di un anno di pandemia. Respiro lentamente per placare l’ansia che monta veloce accartocciando i miei pensieri.
Mi chiedo cosa ne sarà del mio futuro e se la solitudine e i cambiamenti recenti hanno portato con sé consapevolezze o hanno scavato cicatrici.
Questo flusso di incertezza viene interrotto dal promemoria del pc che mi ricorda che dovrò fare lezione ai miei piccoli allievi di lì a breve. Mi ricompongo e avvio la stanza online.
Li guardo attraverso lo schermo e li vedo pronti, attenti e vivi e questo apre una porta dentro di me.
Hanno voglia di imparare e di procedere. Mi chiedono: «quando possiamo rivederci?» e sento una fitta allo stomaco.
Vorrei trovare le parole giuste, vorrei poter rispondere prontamente come quando mi chiedono: «questo passo è fatto bene?», eppure annaspo, incespico. Vorrei dar loro delle certezze che non ho.
Opto per la verità: «non lo so», rispondo, ma mi sento in dovere di aiutarli guardando i loro sguardi persi.
Prima di cominciare a spiegare chiedo dei loro sogni e il significato che danno alla parola «speranza» e le loro risposte mi fanno stringere il cuore: «che finisca il covid», «correre senza mascherina», «tornare a vedere i volti di tutti», «una cosa che sogni di fare anche se ti dicono che non puoi farla. Come con il covid che tutti dicono che finirà tra un anno ma magari finisce prima», «tornare a ballare sul palco».
Mi rendo immediatamente conto che stanno soffrendo. Mi rendo conto che la privazione li rende adulti nei pensieri e che al tempo stesso stimola i loro sogni.
La loro speranza è poter condividere la merenda, poter abbracciare la bambina che gli ha prestato la matita, poter accumulare esperienza, poter tornare alla normalità. La loro speranza è una vita che racconta di contatti, espressioni, esplorazioni, emozioni. È fame di vita.
La loro speranza è poter credere nel futuro. Mi fermo un attimo mentre si affannano a capire se andare a destra o a sinistra guardando il pc, con la connessione che si interrompe continuamente e mi rendo conto della loro forza.
Tengo a mente tutto questo e per un attimo mi chiedo se noi adulti possiamo ancora essere per loro una garanzia. Mi dico di sì, nonostante tutto ciò che cerchiamo di celare. Mi dico di sì anche se la morte è diventata una notizia quotidiana. Mi dico dì sì nonostante la paura di perdere il lavoro, le spese da pagare e la confusione. Mi dico anche che il nostro personale impegno ed entusiasmo possono aiutarli a «stare» e che in fondo i buchi emotivi della pandemia saranno la spinta delle loro scelte future.
Mi dico che i bambini hanno ancora tutta la capacità di sognare chiudendo gli occhi e che quella fantasia va alimentata. Bisogna educarli forzatamente alle difficoltà, ma questo tornerà loro utile quando tutto sembrerà appassire.
Alimentare i sogni, in fondo, alimenta la speranza. Ed è così che con gioia accolgo le loro risposte e ne faccio tesoro, ripetendomi che devo essere forte anche per loro. Gli adulti spesso sono per i bambini un punto di riferimento imprescindibile ed è forte la potenza di una parola o di un piccolo gesto reciproco (penso ai disegni che mi mandano su whatsapp per dirmi «io voglio tornare», «io ci sono», alle lezioni per farli entrare in un mondo di fantasia chiudendo gli occhi).
Ascoltarli, accompagnarli e stimolarli ad andare oltre la barriera del pc e alle mura di casa è un compito di noi adulti.
Stacco dieci minuti per la lezione successiva e mi propongo di affrontare lo stesso tema con gli adolescenti.
Li trovo stanchi, svogliati, affaticati. Si stanno perdendo la fase più interessante della vita e a volte cedono, hanno bisogno di mettere la quinta e sperimentare togliendo la maschera, o forse solo la mascherina.
Abbozzano passi con poca convinzione. Ci fermiamo. «Ragazzi parliamo», dico, «anche questa è lezione».
Parlando con loro mi pare evidente che non abbiano speranza. Sono travolti da informazioni, da tanti «forse» e da finte partenze e alla fine non ci credono più, non si sentono capiti.
Non credono nemmeno più a noi adulti perché sanno perfettamente che tentiamo di rassicurarli e abbiamo le loro stesse paure. Il vero problema è che non abbiamo risposte. Quelle di cui loro hanno disperatamente bisogno per procedere.
«Futuro» è una parola che sembra essere stata cancellata dal loro vocabolario eppure, dico loro: «ogni giorno che passa è un po’ di quel futuro».
Mi rispondono che non ce la fanno più e mi dico che hanno ragione.
Cerco di mettere insieme i pensieri e opto ancora una volta per la verità.
Accolgo la loro frustrazione (che sento anche mia), ma parlo di una cosa a me cara: «saper attendere».
Viviamo in un mondo che cresce ed evolve alla velocità della luce, dove, un like vale quanto un nuovo amico.
Li invito a riflettere su cosa davvero manchi loro: «stare insieme» è la risposta. Apriamo una parentesi sul mondo dei social così vicino alle loro dita, ma così lontano dalla loro vera essenza e scaviamo insieme oltre l’apparenza.
Ed è allora che trovo la chiave. Lo dico a loro quanto a me: dobbiamo imparare ad attendere. In questa lunga attesa hanno la possibilità di scoprire i loro talenti, le loro inclinazioni e la bellezza delle piccole cose, senza indossare maschere. Dico loro che i risultati arrivano con pazienza e che a volte è necessario fermarsi, tornare indietro nella spirale, per poter procedere con maggior fiducia.
Li vedo per un attimo meno tristi per quanto le mie siano, ancora una volta, solo parole e non fatti. Riflettono, non so se li ho convinti, ma getto un seme.
La parola speranza significa «tendere verso una meta» e credo che questo sia il punto di arrivo della pandemia.
Abbiamo messo in discussione la nostra quotidianità, i nostri sogni, i nostri rapporti e questo ci ha portato all’essenza delle cose.
Comprendere la propria strada e la propria indole credo sia un grande regalo e un grande percorso, capire cosa conta davvero.
Non nego che a questo grande vantaggio vada associata la condivisione (che è sempre il termine di confronto utile per meglio comprendere), ma è importante, fondamentale, credere in qualcosa, soprattutto in se stessi.
Perché la speranza è il motore primario per muovere il primo passo verso i sogni, ma per realizzarli bisogna imparare il valore dell’attesa e la perseveranza. Se c’è una cosa buona che questa situazione può donare a loro e a tutti noi è l’arte di saper attendere con fiducia tutti i passi che ancora dobbiamo compiere.