È un pomeriggio di lavoro come tanti altri, mi metto la divisa blu scuro, quella degli infermieri che lavorano nell’area dell’emergenza/urgenza, la cuffietta protettiva, la visiera, la tuta e i guanti.
Oggi sarò in OBI COVID, Osservazione Breve intensiva per pazienti affetti da Covid. Una parte del pronto soccorso dedicata all’osservazione dei pazienti per alcune ore o giorni, al fine di avere più tempo per un inquadramento clinico, per fare approfondimenti diagnostici e terapie, prima di decidere se muoversi verso una dimissione o un ricovero in ambiente più idoneo.
Il signor V ha il casco della CPAP, i suoi scambi respiratori non sono buoni e necessita di ossigeno ad alti flussi che viene erogato da questo «casco da astronauta» rumorosissimo sia per chi lo indossa che per chi assiste il malato.
Inizio il mio giro prendendo i parametri a tutti i pazienti, assicurandomi che siano stabili nelle loro attuali condizioni.
«Signor V, le prendo i parametri dal monitor, poi prendiamo insieme la pastiglia della pressione!», «Non ho capito, non sento!».
Il casco è troppo rumoroso e noi troppo bardati tra mascherina e visiera, per riuscire a farci capire dai pazienti. Apro una piccola valvola anti soffocamento presente nel casco, nella speranza di riuscire a farmi sentire meglio.
«Va bene, ok! Devo stare ancora molto in questa posizione?».
V è pronato, ovvero si trova a pancia in giù. È una tecnica che serve a favorire meglio gli scambi respiratori poiché i polmoni non risentono del peso della gabbia toracica, come invece accade da supini, e quindi si espandono meglio. Più a lungo viene mantenuta la posizione, maggiore sarà il beneficio che ne possono trarre.
«Mi lacrimano gli occhi, me li asciughi per favore?». Riapro la famosa valvola di prima.
«Ascolti, devo rifarle il prelievo nell’arteria del polso! Dobbiamo vedere se respira meglio».
Il prelievo in questione è l’emogasanalisi. Un prelievo dall’arteria radiale, situata nel polso, per vedere con precisione la pressione parziale di ossigeno e anidride carbonica (e altri valori) nel sangue arterioso e quindi capire se il casco sta dando i suoi benefici.
«Il prelievo fa male? La avviso che sono un fifone, ho paura!».
«Non c’è problema, quando sto per bucare la avviso, stia tranquillo e cosa più importante, bello fermo!».
«Ha già fatto? Ma è stata bravissima, Debora! Voglio che me lo faccia sempre lei il prelievo, per favore! Non voglio nessun altro».
«Va Bene V, adesso analizziamo il campione, poi vediamo se respiri meglio».
«Allora Debora, che si dice? Devo morire?».
Porca miseria! E adesso che cosa gli rispondo? Una domanda del genere spiazza. Ma lui ha ragione a voler sapere quale sarà il suo destino.
«L’emogas non è bellissimo, ma adesso capiremo che cosa fare, riposa un po’ intanto. Vuoi rimetterti dritto?».
Passa qualche ora durante la quale mi occupo degli altri pazienti. Sia di chi è in OBI come il signor V, che degli accessi veri e propri in Pronto soccorso per Covid confermato o sospetto.
V Mi fa cenno con la mano di avvicinarmi e mi rivolge una domanda particolare:
«Ma qui dentro, chi è che fa il lavoro sporco?»,
«Che cosa intende per lavoro sporco?»,
«Sì, insomma, chi si batte davvero per i pazienti? Perché i dottori sono sempre così di fretta! Non riesco nemmeno a parlarci insieme. Invece voi infermieri, voi sì che lavorate duramente! E scommetto che a fine mese gli stipendi mica sono uguali!»,
«Ha ragione V, gli stipendi non sono uguali ma in pronto soccorso lavoriamo tutti duramente, anche i medici, glielo posso assicurare. Solo che effettivamente noi siamo quelli che rimangono maggiormente a contatto con voi pazienti per tutto il turno di lavoro, ecco il perché di questa sua sensazione».
«Comunque, siete veramente degli angeli!».
Il mio turno sta quasi terminando, le ore sono passate e mi appresto a passare la consegna ai colleghi del turno di notte. Saluto il signor V e spero di rivederlo domani.
Anzi no, spero di non rivederlo domani. Spero che nel frattempo abbiano potuto ricoverarlo in un reparto dedicato dove si prendano cura di lui in modo tale che possa riabbracciare la sua famiglia. Spero che alla sua domanda «devo morire?» non debba sentirsi dare una risposta affermativa.
Spero…
Abbracciata alla speranza che un giorno non dovremo più fare i conti con questo virus, mi tolgo le protezioni che mi hanno accompagnata per sette lunghe ore e non vedo l’ora di tornare a casa.