Di Ginevra Pistolesi
Un grande artista e un grande uomo. Ha lavorato con Lucio Battisti, De André, Paolo Conte, Guccini, è stato uno dei fondatori della PFM, la Premiata Forneria Marconi. Ha anche fondato il CPM – Music Institute a Milano, un centro per formare i giovani che vogliono intraprendere la carriera professionale nel mondo della musica. Ma anche nel lontano 1987 ha cominciato ad entrare nelle carceri per aiutare i detenuti. Un super volontario che non ha mai mollato. E dopo trent’anni è ancora qui con i ragazzi della Fondazione Exdous di don Mazzi.
Sì, un grande artista, un grande uomo.
Il Bullone, che è sempre alla ricerca dei testimonial di vita, di quelle persone che guardano lontano, l’ha incontrato. Stiamo parlando di Franco Mussida, l’artista che con Impressioni di settembre ha incantato mezzo mondo, l’uomo che ha sempre guardato oltre l’orizzonte per capire che cosa c’è là in fondo, dentro di noi.
La musica è speranza, terapia, comunità, recupero?
«La musica non è recupero. È il modo con cui l’uomo riesce a comunicare il suo essere interiore, è l’opportunità di entrare nei cuori, aver la possibilità di riempire il vuoto che c’è in tante persone. La musica è emozione, si lega al piacere e al dispiacere. Nel mio libro Il pianeta della musica, cerco di parlare ai lettori e agli ascoltatori per aiutarli a godere completamente della dimensione musicale. Ecco allora che la musica non diventa terapia ma sicuramente sostegno, una vitamina per la coscienza, comprensione della propria esistenza, ci fa capire che il motore della vita sono le nostre emozioni».
È quello che fai con i detenuti nelle carceri. La musica che parla ai cuori?
«Sì, io lavoro nelle carceri di San Vittore e di Monza, dove si cerca di portare la musica per far sì che i detenuti inizino ad ascoltarla in modo consapevole. Io parlo di musica, non parlo di canzoni».
Come influisce una base, un testo, su una generazione?
«Quando si parla di musica bisognerebbe immaginare di parlare di comunicazione non verbale. La musica è uno strumento che non prevede parola. La canzone è una sinestesia, una parte il testo, una parte la musica, noi chiamiamo tutto musica ma non è corretto. Detto questo, oggi si è capito che per comunicare meglio un testo bisogna dargli un ritmo, le cadenze ritmiche della parola si sono sposate con il ritmo della musica. I rapper usano la musica, solo la parte ritmica, perché è la cosa più istintiva, quella che ti arriva. Un esempio, se prendo un tamburo e mi metto a suonare ritmicamente e poi ci aggiungo una parola, per certi versi ho già fatto una comunicazione e tu comincerai a muoverti. Non è che abbiamo fatto qualcosa, non abbiamo elaborato niente, semplicemente rispondiamo a un ritmo. Allora la musica di oggi è una musica che viene fatta affinché i ragazzi possano rispondere senza impegnarsi, nel senso che tutto è legato all’istinto: tu fai su e giù con testa perché segui il ritmo, non c’è elaborazione. La musica oggi ti restituisce poco. C’è un testo che ti racconta delle cose e siccome oggi c’è in giro tanta rabbia, c’è anche tanto mercato della rabbia. Ti faccio una domanda: che cosa produce la rabbia?».
Produce altra rabbia…
«Brava. Non voglio giudicare la musica che fanno i ragazzi, dico semplicemente che i ragazzi devono stare attenti a non entrare in una dimensione in cui il mercato li usa. Bisognerebbe poi avere una base di educazione musicale per capire che la musica è un potere anche capace di entrare nella sfera emotiva delle persone e bisogna usarla con responsabilità».
Il problema è quindi la manipolazione?
«Certo. Se io riesco a manipolare la tua struttura emotiva è più facile che tu risponda a quello che voglio fare. È come la droga. Se ti do tutto i giorni eroina e ti rendo un’ameba, continuo a vendertela perché a me interessano i tuoi soldi e di te non me ne frega niente. Il denaro e il non rispetto della persona sta in tutte le cose che creano dipendenza. Anche la musica può creare dipendenza».
Che cosa è cambiato nelle generazioni che ascoltano con leggerezza testi che parlano di droga e spaccio?
«Colpa della mia generazione. Non ha restituito le cose migliori che avevamo. Ci siamo affidati alla tecnologia. L’esperienza del contatto viene quasi messa alla pari di un’esperienza virtuale, quindi rischiamo di perdere il senso dell’esperienza, del fare. Stiamo parlando al telefono, se fossi lì sentiresti tutta la mia passione e diventerebbe un’esperienza diversa, più vera, più forte. Parliamo di concetti, ma la vita è esperienza di cuore. Oggi i ragazzi vivono di più l’esperienza astratta, la virtualità. Dobbiamo condividere che cosa significa anche il vivere insieme. Tu che stai facendo un’esperienza di comunità, capisci meglio di tutti che cosa voglio dire».
Stiamo copiando, stiamo assimilando il modello americano?
«Il modello americano lo vedo agganciato alla forte competitività, al nichilismo, alla dimensione epica di una vittoria. Questo comunque ci divide. Dobbiamo ignorare le cose che ci dividono. Quanti linguaggi abbiamo condivisibili con persone di altri idiomi? La musica. La musica unisce».
Si può amare la musica anche se non ho talento?
«La musica non dipende solo dai musicisti che sono servitori di essa, ma è fatta dagli ascoltatori che non sono obbligati a suonare uno strumento. La cosa più importante della musica e quella di poter essere vissuta da chi l’ascolta. Non c’è bisogno avere talento, ma sensibilità, sentire musica piuttosto che ascoltarla, come in passato».
Grazie Maestro