La storia di Ada Baldovin

Autori:
Illustrazione di Paola Parra
Illustrazione di Paola Parra

Di Laura Tasto

Sono in camera mia. Computer acceso, il cursore che sfreccia sui file di lavoro. Spotify sta riproducendo in modo casuale, ed eccola, Ruby Tuesday dei Rolling Stones. «Questa gli piaceva tanto», penso mentre canticchio il ritornello: Goodbye Ruby Tuesday/ Who could hang a name on you?/ When you change with every new day/ Still I’m gonna miss you.

È passato già un anno dall’ultima volta che gli ho detto che gli volevo bene. Un anno in cui sono stata costretta ad ascoltare e imparare. Un anno in cui ho smesso di anestetizzare le emozioni di cui ho sempre avuto tanta paura.

Ma partiamo da 24 anni fa circa, non potrò raccontare tutto, ma ci si prova.
Contagio verticale, da mamma a feto. Mia madre lo scoprì mentre era già incinta, ma fu così che alla veneranda età di 0 anni contrassi l’HIV. Mai fatto uso di droghe, mai fatto il primo vagito, non avevo ancora mai fatto sesso, ma a quanto pare la vita mi ha voluta già fottere. Ed ecco, che per un preservativo mancato no so quanti anni prima della mia nascita, oggi sono qui a scrivere la mia storia.

«Non devi dirlo a nessuno!» Ricordo esattamente il momento in cui mia madre me lo disse: in cucina seduta sul mobile di legno, avrò avuto forse sei anni. «Non devi dirlo a nessuno», avevo capito, era tutto chiaro, non dovevo dirlo a nessuno, facile. Quando si è piccoli è sempre tutto facile. Sono sempre stata una brava bambina, e obbedii.
«Non devi dirlo a nessuno!», quella frase si ripeteva dentro la mia testa all’infinito. Non devo dirlo a nessuno, non devo dirlo a nessuno. Non ne parlai mai a scuola, non ne parlai mai a casa, non ne parlai mai nemmeno con me stessa. Quella frase, mi resi conto poi, non era solo nella mia di testa, ma anche in quella dei miei, che fecero come me. Evitarono di dirlo, anche tra di loro.
Come se nulla fosse.

Andavo in ospedale, mi prendevo i farmaci, ma faceva tutto parte di una normalità, di una ritualità quotidiana che era sempre stata così. Come se per qualche strano motivo, quell’enorme elefante rosa nella stanza fosse sempre esistito.
«Non devo dirlo a nessuno…». C’erano anche dei termini (oggi tristemente noti per via della pandemia): infezione, reparto-malattie-infettive, virus, infetto, contagio, contagioso, HIV, AIDS, antivirali. Tutto stipato in un cassetto abbandonato per anni nella testa di una bambina che cresceva quasi in una sorta di piacevole trance auto-indotta, dove tutto questo mondo non poteva toccarla. Un’infanzia passata, per quanto possibile, in maniera serena. Andavo a scuola, prendevo bei voti, avevo tanti amici.

Poi iniziarono le medie, e si sa, le medie non sono belle per nessuno, soprattutto per le ragazze che come me vengono scelte da madre natura per «fiorire» quando il loro corpo ancora non ha scelto su che sembianze antropomorfe orientarsi.
«Non devo dirlo a nessuno…». Terza media, ora di scienze. La prof spiega i virus e all’improvviso: «L’AIDS è una malattia che si prendono solo le persone cattive, finché farete i bravi non vi potrà succede niente».
Fu come se mi si rompesse qualcosa nel cervello. «Non devo dirlo a nessuno, perché sono una persona cattiva?». Rimasi impassibile, come era mio solito fare, perdere il controllo sulle mie emozioni non era ammissibile. Nel frattempo, nella mia testa quel cassetto dimenticato si era aperto e ne erano usciti tutti quei termini che avevo sempre ignorato.

Fu in quel momento, tornando a casa quasi in lacrime, che per la prima volta mi sentii sporca.

AIDS, una malattia da sempre relegata a una certa categoria di persone. HIV, virus, contagio, infetto, tossico. Da tenere lontano, a distanza, nocivo. Sporco.
«Non devi dirlo a nessuno». Malattie infettive, epidemia, viremia, infezione. Non dovevo dirlo a nessuno, ora lo avevo capito. Se avessi detto a qualcuno della mia condizione, avrebbero iniziato a vedermi come mi vedevo io in quel momento: infetta, sudicia e da tenere a distanza.
Per la prima volta me lo sentii addosso, sotto la pelle. Sentii di essere un pericolo e allo stesso tempo di essere in pericolo.

Cosa strana lo stigma: un marchio a fuoco sulla fronte, che si tenta incessantemente di coprire con una frangia orrida. Ma io non ero stata marchiata, non lo avrei mai permesso. Non lo dissi a nessuno. Ora sapevo anche il perché non avrei dovuto dirlo. Sarebbe stato un segreto innocuo, come la passione per i programmi di cucina. Me ne sarei dimenticata come era già successo in passato.

E invece iniziarono le superiori, e tutto si fece più complicato. La natura aveva finito di torturarmi e finalmente avevo acquisito sembianze umane. Iniziai presto a uscire con i ragazzi, un po’ per togliermi l’insicurezza di quell’ex corpo da calzino brufoloso, un po’ forse perché, senza saperlo, un’altra insicurezza si stava formando.

Realizzai che la parte più difficile della convivenza tra me e il virus non erano le cure e le visite, non erano gli effetti indesiderati dei farmaci, ma era l’altro. Chiunque l’altro fosse, avrebbe dovuto accettare di stare non solo con me, ma anche con il virus.

Contagioso, infetto, per legge sono obbligata a non contagiare l’altro (o quanto meno a sua insaputa del rischio), pena reato di lesioni gravissime, o nel peggiore del peggiore dei casi, omicidio.
Beh, poca ansia. Senza pensare alla consapevolezza di aver fatto del male a qualcuno…
Così, mentre gli altri si godevano il primo amore spensierati, io già mi immaginavo le fughe dal carcere perché avevo limonato qualcuno col dente del giudizio infiammato.

Illustrazione di Paola Parra
Illustrazione di Paola Parra

Nonostante tutto, ho cercato di vivermi le mie prime relazioni adolescenziali quasi serenamente. Anche perché sapevo che tutte quelle paranoie erano di fatto solo paranoie. Perché, se come me ti curi da molto tempo, il virus diventa non rilevabile, ovvero la quantità «in circolo» (cose troppo tecniche per starsi a dilungare) è talmente bassa da non permettere il contagio.

Ahimè, però, tutte quelle paure e insicurezze stavano creando un mostro, un’ombra, ben più spaventosa. Quel «Non devi dirlo a nessuno» si era trasformato subdolamente in odio e disgusto per tutto quello che quella maledetta sigla significava. Arrivò un momento in cui riuscivo a pensare solo al fatto che non me lo meritavo.
Lo stigma era vero, chi si prende l’HIV ha colpa, perché non è stato attento, perché poteva evitarlo, fare una scelta migliore. Poteva evitare di mettersi un ago nel braccio, poteva mettersi un cazzo di preservativo. Io, invece, non avevo avuto scelta, nessuna opportunità di sbagliare, stavo pagando per lo sbaglio di qualcun altro.

Ancora una volta fu una commistione di cose. Questo mostro invisibile pieno di rancore e quelle voci nella testa che mi ripetevano «fai schifo», …emozioni, emozioni incontrollabili, dolore che non volevo sentire. È così facile che nemmeno te ne accorgi, inizi con un drink, e poi passi al secondo, poi al terzo, un tiro di canna? Facciamo anche due, un paio di shots di tequila sale e limone, e si vola!

Che sensazione magnifica! Tutte quelle voci, quella pesantezza, tutto sparisce! E sei solo molto felice, balli, ti diverti ! Lo fai una volta, due volte a settimana, non si fa male nessuno! Un anestetico per le emozioni!

Non ho mai bevuto tutti i giorni, non ne sentivo la necessità, quindi nelle mia testa andava tutto bene. Il punto è (ancora oggi) che quando inizio, quella sensazione mi inebria, ne voglio ancora, sempre di più. E ogni volta il finale è sempre lo stesso: un’immagine poetica della mia testa nel water mentre vedo la mia anima (non solo) e la mia reputazione, scivolare via nello sciacquone.

È come perdersi in una bellissima nebbia: tutti i problemi si opacizzano, scompaiono. Tutto un’illusione, perché poi, mentre tu pensi di esserne fuggito, quando la nebbia si dirada, loro sono sempre lì che ti guardano con le braccia conserte e il sopracciglio alzato tipo «ma sei seria?».

Mi reputo molto fortunata, perché nonostante tutto, un po’ grazie anche al Bullone, mi sono resa conto di quanto stessi rischiando, di quanto fossi vicina a cadere in un baratro dal quale sarebbe stato difficile tornare indietro. Mi sono fermata sulla punta del precipizio, e più di una volta ho pensato che sarebbe stato così facile lasciarsi andare e cadere. Ho lottato e lotto tuttora, non contro l’HIV, ma contro questo lato di me, subdolo, piacevole e autodistruttivo, e forse ci dovrò combattere per sempre, perché è parte di me ed è giusto accettarlo come fatto.

E arriviamo a gennaio 2020: in un coffeeshop di Amsterdam festeggio il mio 23esimo compleanno e poche settimane dopo scoppia una pandemia che avrebbe cambiato le nostre vite per sempre… no. Poche settimane dopo è morto mio padre. Un tumore al pancreas me l’ha portato via in soli due mesi. Nessun pianto disperato, nessuna sceneggiata da film. Solo silenzio, vuoto e freddo. All’improvviso non avevo più nessuno da chiamare papà. A volte ancora lo sento entrare dalla porta e dire: «Ehi! Dove sono le mie ciacche?». L’uomo a cui per anni avevo attribuito la colpa della mia situazione, il papà che amavo tanto nonostante tutte le nostre incomprensioni, era morto. È morto.
In quest’anno e mezzo i bar non sono quasi mai stati aperti e io non ho potuto bere. Nessun anestetico per le emozioni. Le ho sentite tutte, chiusa in casa mia, sola. Uno tsunami che ha fatto tabula rasa. Spero di riuscire a ricostruirmi in maniera migliore questa volta.
Come se non bastasse, ho concluso il 2020 contagiandomi col Covid… con polmonite tra l’altro!

In conclusione, una persona molto riservata, tanto da mettere un nome finto come firma di questo articolo, tra i pochi bambini nati con l’HIV abbastanza sfortunati da contagiarsi, ma abbastanza fortunati da salvarsi. Un’alcolista che non ci ha creduto abbastanza, una povera bambina malata, orfana che desidererebbe andare alle Maldive se Make a Wish fosse in ascolto, un’evidente comica sprecata, sopravvissuta non ad uno, ma a ben due virus mortali, che ha vissuto due pandemie. E se la vita mi ha fatto un grande dito medio io gliene ho fatti, cazzo, due! Signori, che dire? Goodbye Ruby Tuesday/ Who could hang a name on you?/ When you change with every new day/ Still I’m gonna miss you.

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