I Discorsi Che Cambiano La Storia: Wislawa Szymborska.

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Qui il discorso di Wislawa Szymborska recitato al conferimento del premio Nobel nel 1996

Di Stefania Spadoni

Come si commenta la poesia? Indubbiamente lo stesso discorso della Szymborska, con queste esatte parole, scritte, lette, pronunciate è poesia pura. È bellezza e comprensione. È libertà. Ti rapisce nella sinuosità delle sue parole, ti avvolge, ti cattura e poi ti abbandona con la domanda delle domande, aperta sul tavolo, davanti ai tuoi occhi increduli: cos’è la poesia? Com’è possibile dare una forma a questa parola, che non sia limitante e irrispettosa? La definizione canonica di poesia ci insegna che essa è una forma d’arte che crea, con la scelta e l’accostamento di parole secondo particolari leggi metriche, un componimento fatto di frasi dette versi, in cui il significato semantico si lega al suono musicale dei fonemi. Ma riportare tutto a questo dato tecnico non è forse limitante del valore che la parola poesia ha assunto nella nostra cultura? Non è forse normale osservare un soffione spogliato dal vento e pensare che sia poesia? O ancora, le onde del mare infrangersi contro il nero degli scogli, un raggio di sole carezzare il volto di un anziano, una mano sfiorare un’altra mano… Come e quando è accaduto che la stessa parola poesia sfuggisse agli schemi e diventasse altro, se possibile tutto? È un accadimento prezioso che ha nobilitato il verbo, o un decadimento della stessa verità della parola che non si accontenta di fare il mestiere più arduo della scrittura e per definirsi necessita affiancarsi ad altre arti, e addirittura alla stessa composizione del mondo, la vita, elevandone i momenti? Questo riconoscimento formale di cui tanto parla la Szymborska e al quale non si accede perché non esiste, non è forse la più alta forma di libertà e allo stesso tempo la dannazione più pura che tutto giustifica ma nulla conferma?

Il valore della parola

Il mio commento al discorso della poetessa è pieno di domande che rimangono aperte, così come aperto è il luogo di indagine della poesia. Questo «non so» che muove i poeti, ma altresì gli scienziati, gli artisti, i pensatori e gli uomini tutti che non vogliono stare fermi sulle loro certezze, indipendentemente dal mestiere che svolgono, è una scelta. Scegliere di non sapere per domandarsi. Scegliere di non sapere per sapere. Conoscere altro. Dubitare e indagare. Essere curiosi sempre. Vorrei anche, però, soffermarmi sulla parola pura, vettore di informazioni e di emozioni. La parola che è grafia e suono. Che appaga vista, udito, ma anche mente e cuore. La parola che a volte si tocca e ti tocca. La parola che va salvaguardata sempre. La parola che ha mille forme e una è proprio la poesia. Fragile, breve, dritta, precisa. Un codice umano, tramandato, tutelato, a volte usurpato, bruciato, cancellato, ma sempre rinato. Un’esigenza come tutte le arti. E il potere che ha la parola nelle mani di una donna come Wislawa Szymborska è sconvolgente. Il suo verso libero e apparentemente semplice, si stacca dal foglio e arriva fino alle viscere e lì ci rimane. Questo discorso ne è la dimostrazione: un atto formale e dovuto, che riesce a trasformarsi e a danzare con le parole nelle nostre orecchie, appoggiandosi sulle corde più tese delle nostre sensibilità. La prosa che enunciata diventa poesia. Perché ci vuole coraggio per sedersi al tavolo o sdraiarsi su un divano e guardare fisso un muro o un soffitto senza muovere un muscolo. Scrivere e cancellare, confrontarsi con un foglio bianco e l’immensità dell’esistenza. Essere vuoti per essere pieni. Ammettere di farlo. Concedersi di poterlo fare. Grazie, Wislawa Szymborska per questo discorso disarmante, semplicemente vero e come le tue poesie così difficili eppure scritte così semplicemente.

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