Emilio Isgrò: «Avrei avuto paura del rischio».

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Emilio Isgrò interpretato da Chiara Bosna
Emilio Isgrò interpretato da Chiara Bosna

Emilio Isgrò, artista concettuale, uno dei nomi dell’arte italia più riconosciuti a livello internazione, sulle pagine del Bullone.

Di Fiamma Colette Invernizzi

Citofono. Cancello. Corte interna. Spesso Milano si racconta così, con un bicchiere di vino mondano, fuori, e i mormorii di mondi nascosti, dentro. Lo studio di Emilio Isgrò non fa differenza, con un nome scritto a pennarello tra gli altri in elenco, incollato sul campanello.

Lui ci aspetta, seduto nell’anticamera dell’atelier, tra principi di cancellature e collezioni di opere liriche in VHS. Sorride sornione. Si alza e ci fa strada tra semi giganti e libri dalla firma inconfondibile. «Questa è l’ultima opera su cui sto lavorando», ci confessa allungando il braccio verso una carta geografica. «È una Spagna del Seicento cancellata secondo l’editto del 1492, o decreto di Granada, con il quale diventava obbligatoria l’espulsione delle comunità ebraiche dai regni spagnoli e dai loro possedimenti. Come vedete restano evidenti solo le città più legate alla cultura ebraica, che era molto inserita nella cultura e nell’economia spagnola dell’epoca».

Cancellare ricostruisce la realtà.

Pare subito chiaro, tra i tratti grafici di montagne antiche e corsi d’acqua, quanto potere comunicativo abbiano le cancellature di Emilio Isgrò. Semplici, immediate, come su un quaderno di scuola scarabocchiato dal sapore universale. «Come saprete», continua l’artista, «lavoro sulla cancellatura, ma questa non ha un valore distruttivo come spesso si pensa. È invece un modo per ricostruire la realtà. È un segno di speranza. È un tratto mosso con una certa ambiguità, come tutta l’arte. E come tutta l’arte, non più far passare messaggi troppo chiari, perché quello spetta alla pubblicità e ai giornali. D’altronde se l’arte non fosse ambigua nessuno avrebbe ragione di guardarla e non genererebbe la curiosità adatta per risvegliare l’attenzione nei confronti del mondo, o no?».

Lo dice passeggiando tra stralci di libri sacri e segni neri, o mappamondi cosparsi di tratti bianchi a coprire ogni nome. Ci fa strada lentamente, sempre parlando con un tono di voce che ricorda gli antichi racconti tramandati oralmente di generazione in generazione. Sale le scale narrando di frammenti di vita passata. «Ho cominciato come poeta, appena sono arrivato a Milano», si sofferma, «e non considero la mia attività letteraria meno importante di quella artistica. Certo, il pubblico percepisce dove c’è più clamore e si interessa più di quello».

Lo dice con uno scintillio negli occhi, mentre si avvicina all’Italia che dorme, scultura di una sagoma indistinta coperta di un telo metallico su cui passeggiano gruppi di scarafaggi. Seguire il suo sguardo è un piacere, ascoltarlo una delizia. «Questa è la prima cancellatura che feci», prosegue, «ed era il 1964. So che è piccola di dimensioni, ma ormai ha un immenso valore». Il ritaglio di giornale non sarà più grande di un paio di francobolli, su cui si leggono ancora poche parole, tra i tratti neri delle cancellature. «Attendono… di diventare soci… dei risultati… da parte di… provinciali scoperti». La teca ne inquadra il significato ambiguo ma chiaro, come un piccolo reperto storico, prezioso e unico. 

La paura del rischio.

«Un artista non presume di cambiare il mondo», ci confessa Emilio Isgrò, tra le sue creazioni, «però pensa che con i suoi atteggiamenti può contribuire a far in modo che le cose funzionino meglio. In questo senso l’arte è un impegno civile costante. Sarebbe facile dire “ora niente va bene” – non lo dico mai – perché forse tutto va bene e sono io che non lo capisco». Nella sua carriera l’ironia non è mai venuta meno. Sui muri sono appese poesie grafiche, ingrandimenti di dettagli fotografici illeggibili e rettangoli rossi con didascalie come «Friedrich Engels (al centro) dorme nel rosso vestito di rosso», oppure «Antonio Gramsci (a destra) scrive nel rosso vestito di rosso», che sanno di immaginazione e irriverenza.

«Durante la mia intera esperienza artistica ho rischiato», afferma, «e forse non me ne sono accorto, altrimenti avrei avuto paura». Lo dice con serietà, e poi continua a riflettere tra una sala e l’altra: «Si rischia quando ne vale la pena. Io non ho mai fatto niente che non mi piacesse fare. Sono stato sempre un selezionatore attento di un certo tipo di scelte. Il rischio era una cosa di famiglia: sono cresciuto in una famiglia estremamente attenta alla cultura. E se ci pensate la cultura è rischio. La cultura è avventura. Adesso tutti parlano di ricchezza, di soldi. Ma non si può creare una reale ricchezza senza cultura».

Ci muoviamo tra le cancellature, tra le sale, tra le formiche, tra i pensieri astratti e le provocazioni, tra le pagine della Divina Commedia e quelle della Bibbia, ovviamente coperte di tratti neri su fondo bianco e bianchi su fondo nero. Riflettiamo insieme su opere spaziali e bidimensionali, sulla cultura pop e sul mercato dell’arte. «Ho iniziato quando l’arte concettuale non esisteva ancora, quindi poi mi sono preso il privilegio di non farne più quando ho deciso. L’artista è un animale pensante che però deve fare i conti con il mercato e con i mercanti», prosegue.

Emilio Isgrò interpretato da Chiara Bosna
Emilio Isgrò interpretato da Chiara Bosna

«Dovete sapere che il mercante che vende l’opera raramente collabora con l’artista. L’artista che ha una certa sicurezza di sé – anche economica – al mercante non piace, perché gli può dire di no. Un tempo c’era uno spirito mecenatesco, quello delle vecchie classi borghesi, con la loro educazione e cultura, che ci hanno portato fino a questo punto. Oggi il mercato dell’arte è in mano alla finanza speculativa. Non ci sono più l’Europa e gli Stati Uniti, che già scricchiolavano. Adesso gli assetti mondiali sono cambiati, sono entrati gli indiani e i cinesi».

Arte della globalizzazione o globalizzazione dell’arte? E poi subito il dubbio: che opere d’arte «funzionano», oggi? Lui ci guarda, attende un momento e poi prende parola. «L’opera funziona quando lo stesso artista resta sconcertato da ciò che ha fatto. Se tu non hai un minimo di dubbio vuol dire che l’opera rientra nelle aspettative. Le mie opere passate alla storia sono quelle che ho fatto e per cui ero più dubbioso. Poi le ho lasciate lì e dopo anni la gente le rivedeva e le rivedevo anch’io e comprendevo quanto fossero dirompenti». Scendiamo le scale e torniamo all’ingresso, allungando lo sguardo fino al laboratorio, in cui cancellature inedite prendono forma e ignote meraviglie imballate si abbracciano sugli scaffali, pronte per le spedizioni. Ci immergiamo per un attimo nell’attenta dedizione al lavoro della moglie Scilla, che lo accompagna da decenni. «L’incontro con lei è stato uno dei più importanti della vita, sicuramente», confessa rispetto antico. «Quando ci siamo conosciuti io ero già un artista piuttosto noto. Lei mi si mise al fianco, senza chiedermi niente. Un gesto di grande fiducia e di grande generosità. Una donna di grande intelligenza. Con lei è cambiato tutto. Abbiamo fatto uno scambio delle parti: lei mi ha messo in condizione di sparire dalla scena e di uscire allo scoperto quando volevo. E così ho fatto. L’ho fatto quando mi sono sentito libero». Libertà, carisma, visione. Poi una stretta di mano e un augurio. A presto. Poi il cancello si è chiuso dietro di noi, silenzioso.

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