Intervista con il professor Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’ISTAT, il più grande centro di indagine statistica e sociale del nostro Paese, docente di demografia all’Univesità Bicocca di Milano, che esamina la situazione italiana nei prossimi anni per le nuove generazioni. Dove ci porterà la Yolo Economy?
Di Alice Nebbia
Il Professor Gian Carlo Blangiardo è accademico e statistico italiano, presidente dell’ISTAT, l’istituto nazionale di statistica. Nell’intervista rilasciata al Bullone, si è discusso del fenomeno «YOLO», delle professioni del futuro e sui possibili investimenti dei fondi stanziati per il Recovery Fund.
Professor Blangiardo, il New York Times ha portato alla luce un fenomeno che sta imperversando non solo negli USA ma anche in Europa e nel nostro Paese, ossia quella della YOLO economy, dove YOLO sta per You Only Live Once (tu vivi una volta sola), in riferimento alla volontà delle nuove generazioni di staccarsi dal lavoro tradizionalmente concepito per gettarsi e reinventarsi in qualcosa di nuovo. Lei che è responsabile dell’Istat e legge i dati, che Italia vede oggi?
«Da questo punto di vista, credo che i dati statistici del nostro Paese siano ancora abbastanza scarsi e non abbiamo la sensazione che questo fenomeno, seppur esistente, vada aldilà di quello che può essere un fatto di nicchia. Probabilmente non ci sono ancora le condizioni per poter spingere in questa direzione. È una possibile linea di tendenza, ma non mi sentirei di dire che i dati supportano una forte presenza di questo fenomeno».
Quali sono, a Suo parere, i motivi della YOLO economy?
«Il motivo di fondo è la capacità dell’essere umano di trovare soluzioni di fronte alle difficoltà. I giovani di oggi, soprattutto quelli più fantasiosi e brillanti, per diversi motivi, si sono visti bloccare alcune aspirazioni legittime, anche in ritorno a forme d’investimento in istruzione verso le quali si erano impegnati e, coloro che avevano le capacità di intuire vie alternative, hanno cercato di provarle. Oggi, le tecnologie e la rapidità del cambiamento, rendono più possibile cogliere nuove opportunità e, in questo senso, credo ci siano buone premesse per incentivare chi più di altri ha questo tipo d’attenzione e intuizione».
Molti giovani, respirando il clima di incertezza e di precarietà esasperato dalla pandemia, hanno cambiato il loro modo di pensare il futuro, facendo delle proprie passioni e aspirazioni un’occupazione a tempo pieno. Ad esempio, giovani che sono ritornati a prendersi cura dell’ambiente, della campagna… In un’epoca in cui tutto sembra precluso, è ancora possibile, per un giovane, sognare?
«Sì, deve essere possibile. Siamo stati tutti giovani e a seconda del tempo in cui lo siamo stati, abbiamo avuto progetti e sogni più o meno ambiziosi, riuscendo, in alcuni casi, anche a concretizzarli. In linea di massima la tendenza e il comportamento devono essere quelli. Il giovane deve avere una visione sul proprio futuro anche ottimistica e poi avere la forza e la capacità per concretizzare i propri desideri. Penso che, in linea con i tempi, ci sia la possibilità e la necessità di muoversi in questa direzione. I giovani rispetto alla pandemia, lo vediamo ad esempio nei dati statistici sull’occupazione, hanno più di altri patito le conseguenze di natura economica e le difficoltà legate all’alternanza del lavoro, quindi è anche legittimo vedere ed immaginare le nuove generazioni muoversi e attivarsi per compensare queste difficoltà e magari trasformare, nel dopo pandemia, ciò che era una soluzione di ripiego in una scelta definitiva, in un nuovo stile di vita soddisfacente e capace di realizzare le proprie aspettative».
Come ha appena accennato, le nuove generazioni, nel periodo della pandemia, sono quelle che hanno sofferto maggiormente; come è possibile aiutarle?
«Dando loro l’opportunità di sperimentare le proprie capacità, offrendo loro gli strumenti di formazione. Non è solo questione di risorse, che certamente sono importanti, ma anche la capacità di spingere e abituare i giovani ad osare, a mettersi in discussione, a valorizzare loro stessi laddove ci sono stati percorsi di formazione e sacrifici. Siamo di fronte a generazioni meno numerose, spesso i ragazzi sono figli unici e la famiglia ha una capacità di protezione maggiore rispetto alle generazioni precedenti, attenuando così questa spinta del giovane al rischio, al mettersi in gioco. Si deve lavorare anche in questa direzione».
Quali saranno le professioni del futuro?
«Le professioni, naturalmente, sono la risposta alla una domanda che proviene dai bisogni. I cambiamenti in atto e la riflessione legata all’esperienza della pandemia, ci portano ad immaginare che gran parte dei bisogni del futuro saranno legati a servizi connessi alla persona. Non solo in relazione a una popolazione che invecchia, in quanto, per servizi legati alla persona, intendo anche il settore della cultura e del turismo; in senso lato, tutta una serie di servizi e beni con cui le persone gratificano sé stesse. Inoltre, lo vedremo anche dal Recovery Fund, avremo risorse per muoverci in alcune direzioni come la tecnologia, la digitalizzazione, e l’ambiente. Insomma, una richiesta di diverse professioni alle quali il mondo giovanile potrebbe rispondere».
Ricollegandomi a quanto ha appena detto, il Recovery Fund, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), stanzierà fondi per circa 210 miliardi di euro. Come sarà investita, secondo Lei, questa ingente somma di denaro?
«È chiaro che nel Recovery Fund vi è una somma ingente di denaro, ma non è ad investimento libero; non sono un tecnico o un’economista per chiarire questo punto. Trattandosi di una cifra significativa, ci sono comunque direttive e programmi che in qualche modo attivano il finanziamento e verranno messi in atto. Ci sono linee sulle quali inevitabilmente sarà necessario investire. Poc’anzi parlavo di digitalizzazione, ambiente e problema sociale. Tali settori, credo, rappresentino gli sviluppi del fondo».