Roberto Faenza racconta Hill of Vision e la sua libertà

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Intervista con il regista e sceneggiatore italiano Roberto Faenza, sul suo nuovo progetto Hill of Vision. Autore fra l’altro di Si salvi chi vuol, Jona che visse nella balena, Sostiene Pereira, Marianna Ucrìa, I giorni dell’abbandono e Alla luce del sole. Ora sta lavorando sulla poetessa Alda Merini, sugli ultimi anni della sua vita.

di Oriana Gullone

Roberto Faenza racconta storie. Storie che, dice, lo scelgono. Da quando nel 1967 esce dal Centro Sperimentale di Cinematografia, ad oggi con Hill of vision, il suo ultimo lavoro, quasi in uscita. Mi hanno chiesto di preparare la sua intervista improntandola sul concetto di libertà.

Crede sia cambiato, dopo il lockdown di più di un anno fa?

«Abbiamo vissuto una situazione incredibile, assomigliava quasi agli scenari raccontati da Manzoni nei Promessi Sposi che «fotografava» la peste a Milano. È sicuramente più difficile pensare alla libertà adesso. Ci stiamo abituando a una sorta di libertà vigilata».

Lei ha diretto Sostiene Pereira di Tabucchi. Ha messo in evidenza la frase «la cultura è libertà». Secondo lei la cultura è libertà in questo momento?

«La cultura ha due grosse difficoltà, adesso, per essere davvero considerata libera. La prima è il Covid, ovviamente, con tutte le limitazioni che ha portato il distanziamento negli eventi in presenza, e la paura che ha lasciato addosso a tante persone. La seconda arriva da più lontano nel tempo, e coinvolge specialmente la produzione audiovisiva: i limiti e i condizionamenti dettati dalle produzioni, le finanze. Pensi che in Italia si producono fino a 200 film l’anno, grazie ai fondi statali, ma di quelli ne arrivano in sala forse una settantina. Le piattaforme, anche le più attuali come Netflix, sono molto selettive, e la spettacolarità spesso vince sulla storia».

Roberto Faenza @ MiamiFilmFestival
Roberto Faenza @ MiamiFilmFestival

E le sue storie, quelle vere, biografiche che racconta da tanti anni, come le sceglie?

«Non ho una risposta razionale, come non lo è la scelta. Jean Vigo, in Zero in condotta, diceva una cosa che ho fatto mia negli anni: sono le opere a scegliere me. Il contrario non capita mai».

Che storia avrebbe voglia di raccontare adesso?

«Ce ne sono due. Quelle sulle quali sto lavorando adesso. La prima è Resilient, cambiato poi in Hill Of Vision. Racconta di questo bambino abbandonato a sé stesso durante la guerra, che viene catapultato nella “civiltà” senza esserci mai cresciuto, arrivando con un coraggio immenso a diventare un Premio Nobel. Poi stiamo lavorando sulla vita di Alda Merini, sugli ultimi anni della sua vita. In entrambe il coraggio è una condizione essenziale di sopravvivenza».

Qual è la persona più coraggiosa che ha conosciuto?

«Credo proprio Mario Capecchi, il bambino di Hill Of Vision. Trovo incredibile il modo in cui ha affrontato tutto, la fame, i pericoli, la solitudine. Forse la libertà è un sogno irraggiungibile. Ma lui forse l’ha vista proprio dalla collina del titolo, quando si unisce alla comunità di quaccheri. Il cambio del titolo è arrivato da solo, ed è meglio del primo. Quando succede così, anche se non sono credente, dico sempre che è Dio a deciderlo». 

Già. Le cose accadono. Anche qui al Bullone succede spesso. 

«Esattamente. Spero di venirvi a trovare, quando capiterò a Milano».

La aspettiamo. Grazie.

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