Intervista a Barbara Mazzolai (biologa con dottorato in ingegneria, dirigente del Centro di MicroBioRobotica) ci parla del Plantoide, la pianta robot che cambierà il mondo.
«Se sfruttiamo troppo l’ambiente in cui viviamo si va incontro a morte».
Direttrice del Laboratorio di Robotica Bioispirata a Genova e Associate Director per la robotica dell’Istituto Italiano di Tecnologia, Barbara Mazzolai è una pioniera dei robot che traggono ispirazione dal mondo vegetale: nasce come biologa marina e ha un dottorato in Ingegneria dei Microsistemi.
Preparo l’intervista facendo ricerche riguardo al suo principale progetto e ne rimango affascinato. Inizio con lei una lunga conversazione, che sono costretto a riportare solo in parte, chiedendole di raccontarmi come è nato il «plantoide», la pianta robot.
«Ormai sono passati dieci anni da quando sono partita con l’idea di imitare le piante, in particolare le radici, per sviluppare robot autonomi per il monitoraggio del suolo. La ricerca è stata finanziata anche dall’ESA (European Space Agency), pertanto oltre all’esplorazione della Terra a fini agricoli, le prospettive di questa ricerca tendono anche allo studio del suolo di altri pianeti».
Perché le radici? «È nata l’idea di unire la biologia all’ingegneria, per studiare l’impatto degli inquinanti sulla salute e sull’ambiente, per capirne il ciclo e come si accumulano nel suolo».
Dopo aver conseguito un dottorato in ingegneria, la dottoressa Mazzolai ha inventato con la sua equipe, una rete di sensori atti a monitorare il suolo. Tali strumenti sono diventati dei robot che hanno la possibilità di muoversi e questo le ha permesso di aprire nuovi scenari sullo studio del suolo. «Dieci anni fa sono riuscita a chiudere il cerchio e ritornare alla biologia».

Partendo dallo studio delle radici delle piante che si muovono in un ambiente ostile come il terreno, «l’ambiente più estremo del nostro pianeta dove agiscono attriti e pressioni», ha scoperto che le radici riducono le pressioni spingendo solo la punta nell’ambiente in cui si muovono. Nondimeno a livello apicale riescono a percepire l’umidità dell’ambiente, gli ostacoli e i nutrienti per la fotosintesi. «Abbiamo tradotto nel robot le stesse capacità di crescita attraverso la miniaturizzazione delle parti di una pianta, con una stampante 3D. Il robot così può imitare la crescita della pianta, andare verso l’acqua, verso i nutrienti».
Dell’ambiente suolo si sa pochissimo: «è complicatissimo ed eterogeneo, c’è un’elevata biodiversità, si formano interazioni. È un mondo poco conosciuto ma fondamentale per l’ecosistema: se un suolo è fertile, una pianta sta bene e di conseguenza anche i funghi e gli animali».
Il plantoide, nelle sue applicazioni più pratiche e immediate, può cercare acqua, permette di capire se bonificare un suolo, può fornire dati all’agricoltura. Mi sorge spontaneo chiederle come si intersecano ingegneria robotica e biologia. «Non è stato facile, anche perché purtroppo la scienza è divisa per discipline». Talvolta si perde la visione d’insieme: un ambito come quello della robotica bioispirata non può essere solo compreso dal biologo o dall’ingegnere. «L’interdisciplinarietà ha un vantaggio: affrontare lo stesso problema da prospettive diverse. Nel mio caso, io rimango biologa di formazione e ho un dottorato in ingegneria, ma ho contaminato le mie conoscenze. È necessario inoltre un lavoro di gruppo. È un percorso complesso, perché quando ho cambiato disciplina è stata dura mettersi a studiare dei nuovi principi. Non è un percorso facile, anche se ora esistono percorsi che includono più discipline».
Rifletto sul fatto che, in una certa misura, la robotica è un ambito che tende a spaventare. Tuttavia è un settore che farà parte del nostro futuro e dovrà includere sempre di più discipline all’apparenza distanti come la filosofia, l’arte e le scienze naturali. «È vero. Si aprono tanti aspetti, da quello etico a quello legislativo. Il robot sta assumendo dei ruoli interessanti proprio dal punto di vista delle piattaforme di studio. Il robot serve per formulare anche delle ipotesi dal punto di vista scientifico». Mi racconta di come inizialmente sia stato difficile reperire fondi, ma come adesso sia soddisfatta della concretezza del progetto. Le applicazioni del plantoide sono basate su un pensiero molto forte: come scrive ne La Natura Geniale, Barbara Mazzolai sottolinea che le piante cambieranno e salveranno il mondo.

«La nostra vita dipende dalle piante. Questo ci fa riflettere su quale dovrebbe essere il nostro rapporto con loro: si muovono ma lo fanno in maniera diversa da un animale. Le piante creano relazioni con molti organismi e da un punto di vista ingegneristico ci stanno insegnando a costruire il domani. Studiare le loro strategie di adattamento all’ambiente circostante, come la riduzione dell’energia dei loro movimenti, ci insegna a progettare le macchine del domani, che consumino meno e che abbiano un ciclo di vita. Imparare ad introdurre un ciclo di vita anche nella costruzione delle macchine e sapere quale sarà l’impatto di questo sistema nella natura, è fondamentale. Se noi sfruttiamo troppo l’ambiente in cui viviamo si va incontro a morte. Anche questi semplici principi, ci insegnano a farci coesistere con altri organismi, concetto che spesso ci sfugge. Non consideriamo le piante, ma senza le piante non abbiamo vita».
Aumenta l’anidride carbonica, aumenta il surriscaldamento della Terra e, in piccolo, cominciamo a vederne gli effetti. Basti pensare agli incendi di quest’estate. Nondimeno nei prossimi anni da duecento milioni a un miliardo di persone si sposteranno per motivi climatici, desertificazione, alluvioni. «È stato studiato come le interazioni fungo-pianta, ad esempio, che ci sembrano trascurabili, hanno dimostrato che oltre a rendere fertile il suolo, hanno anche un ruolo nel ridurre la temperatura della Terra. Ci fanno capire quanto siamo connessi con gli elementi che vivono su questo pianeta».
Le chiedo se la tecnologia potrà contribuire a interrompere o mitigare il riscaldamento climatico. «Chi deve bloccare questo processo è l’uomo, interrompendo determinati atteggiamenti. Ma non possiamo tornare indietro. Lo abbiamo visto con la pandemia: dopo un anno e mezzo di chiusura siamo tornati esattamente agli stessi tipi di vita. La nostra società andrebbe profondamente cambiata e con lei il modello economico. La tecnologia è fondamentale perché aumenta la conoscenza: se dobbiamo intervenire, lo dobbiamo fare sapendo come intervenire. Ad esempio, un plantoide può, monitorando il terreno, comunicarti quando usare l’acqua o quando non usare azoto, fosforo o diserbanti. Informazioni di questo tipo ci aiuterebbero a ridurre il consumo di risorse fondamentali come l’acqua».
Lo sfruttamento dei terreni in agricoltura e l’allevamento intensivo richiedono un cambio di prospettiva da parte dell’uomo, la tecnologia può aiutare ma non agisce in autonomia. «L’uomo ha la responsabilità di scegliere dove indirizzare le tecnologie». Ragiono sul fatto che il cambiamento climatico sta colpendo e colpirà maggiormente un pezzo di mondo, quello più svantaggiato. Le chiedo se le innovazioni tecnologiche saranno accessibili a tutti o saranno appannaggio dell’occidente, così come sta accadendo per i vaccini. «Non riusciamo mai ad avere una visione globale delle cose e la pandemia ce lo dimostra. C’è un grosso rischio di diseguaglianze anche per quanto riguarda le future tecnologie. Noi stiamo cercando di creare tecnologie a basso costo, riciclabili, e anche se la tecnologia non è costosa, il mercato per un suo interesse può andare in un’altra direzione. Chi sviluppa la tecnologia purtroppo non ha la possibilità di decidere rispetto alle dinamiche del mercato. La telefonia mobile è andata in quella direzione: chiunque nel mondo ha uno smartphone. Tutto è in mano all’uomo, tutto è in mano alla sua responsabilità».