Odoardo Beccari, (Firenze 1843-1920) naturalista e botanico italiano. Interpretato dal suo pronipote Odoardo Maggioni.
«Passeggiamo», mi dice, con gli occhi quasi socchiusi, abbassando il tono di voce. «Passeggiamo». Non mi porge il braccio come mi aspetterei da un uomo della sua epoca, anzi, si gira e inizia a scendere le scale come se stesse fuggendo da un luogo fin troppo conosciuto, da una società cucitagli addosso troppo stretta.
Lo seguo giù, giù, fino al cortile di cotto sbeccato, oltre la vecchia porta di legno scurita dal tempo, al di là del vialetto di ghiaia ordinata. Rallenta solo quando le sue suole toccano l’erba folta del retro. Si ferma e si gira, con quel suo fare accigliato, di chi è abituato a guardare oltre le foglie, oltre i mari e oltre gli occhi. «Qui possiamo parlare», mi sussurra lui, Odoardo Beccari, in un angolo del giardino privato in quella sua grande villa fiorentina. «Qui posso raccontarti chi sono».
Le spedizioni nel sud-est asiatico
Il dialogo non è semplice come vorrei, i tempi sono lunghi, quasi estenuanti, come se ogni parola si prendesse il tempo di germogliare lenta, tra la lingua e i denti. I racconti tornano indietro nel tempo, alla prima spedizione in Borneo. «Il 4 aprile 1865 mi imbarcai a Southampton, sul Delhi, uno dei grandi vapori della compagnia peninsulare ed orientale, e giunsi intorno al 16 ad Alessandria d’Egitto». Fa una pausa che mi permette di immaginare i viaggi di quell’epoca, la mancanza del canale di Suez, il trasporto in treno di libri e bagagli, il caldo assordante dei tropici raggiunti in nave e i paesaggi incontaminati.
«In Borneo, nella più grande fra le isole della Malesia, esiste un Paese che non ha ferrovie e nemmeno strade», mi confida Odoardo, «ed è invece in massima parte coperto di interminabili e dense foreste, nelle quali vagano gli orang-utan». Mi osserva con uno scintillio negli occhi senza lasciarmi il tempo di interromperlo. «Quivi, devi sapere, che gli abitanti conducono una vita primitiva, e in parte sono tutt’ora selvaggi dediti alla caccia dei loro simili, di cui conservano le teste affumicate, sospese nell’interno delle abitazioni».
Faccio una smorfia e lui sorride, a metà tra lo scherzo e la macabra ironia. Poi tace e cammina, rallentando, osservando palme e banani, piante grasse e tronchi rugosi. Accarezza una foglia lunga di agave senza pungersi, e mi pare che lo faccia con la naturalezza di chi ha sfiorato più strati di clorofilla che pelli umane. Mormora una frase che sembra una breve poesia d’amore, ma non la sento tanto il suo tono di voce è basso. Mi avvicino, ma nemmeno mi guarda, poiché le sue parole non sono per me ma per loro, le sue muse dalle radici profonde e antiche. «Com’era la foresta, laggiù in Borneo?», gli chiedo appena lo trovo in silenzio. «La foresta», e di nuovo fa una pausa sofferta, «inspira più timore dell’oceano e del deserto. Nella foresta più si avanza e più sembra che il mondo si chiuda dietro di noi. La tema e l’inquietudine di andare avanti aumentano col pericolo di non più uscirne. Nella foresta l’ignoto ha maggiori orrori che nel deserto e nell’oceano».
La vita di Odoardo Beccari
S’interrompe d’improvviso, perché a noi si è avvicinato un coleottero che ruba interamente la sua attenzione. Ho un brivido per la buia solitudine verde che deve aver provato in tre anni, da solo, in quelle terre lontane. Ma lui riprende il racconto. «Le prime notti passate nella foresta vergine, furono di un incanto che mai potrò dimenticare», bisbiglia illuminandosi nello sguardo e nella voce. «In quelle dense e tenebrose boscaglie le notti erano calmissime. L’aria oscurissima riluceva ad istanti di sottili e fantastiche fiammelle: erano i palpiti d’amore di enormi lucciole. Un grosso tronco in decomposizione, a qualche passo di distanza emanava una luce fosforica vivissima, proveniente da certi funghi bianchi meravigliosi».
Lo osservo e sento che non è più lì, vicino a me, con i piedi sulla stessa erba, ma a chilometri e chilometri di distanza, nei suoi pesanti stivali di cuoio sporchi di fango. È innamorato di quel mondo e mi chiedo come abbia fatto a tornare a Firenze, in una mondanità da Capitale d’Italia, tra balli e ricevimenti. «Mi sposto per la maggior parte del tempo a Radda in Chianti», commenta il botanico, come se mi stesse leggendo nel pensiero. «A Radda tutto è più piccolo e più grande, contemporaneamente. La tenuta mi fa vivere all’aria aperta, i vigneti cambiano colore e profumano l’aria, gli insetti mi tengono compagnia con i loro ronzii e le loro metamorfosi. La natura è l’unica stanza in cui posso stare immobile ad ascoltare e osservare».
La sua attenzione silenziosa e il suo amore per la solitudine contemplativa quasi mi commuovono, così lontani dalla casa rumorosa da cui siamo appena usciti. Immagino che la sua indole derivi dal drammatico esordio nella vita: una madre suicida quando è ancora nella culla, il padre morto sei anni dopo. Unica soddisfazione di giovinezza è quella del collegio, con gli insegnamenti di un abate – Ignazio Mazzetti – e i suoi libri di scienze naturali.
A diciott’anni la prima scoperta botanica e i primi piccoli, ma significativi, riconoscimenti. Nasce il Tulipa beccariana. Poi altri studi, altri libri, i viaggi in Borneo, a Giava, in Nuova Guinea e in tutto il sud-est asiatico, la malaria e altre malattie tropicali, la scoperta della più grande efflorescenza esistente sulla Terra, l’Amorphopallus titanum, i racconti condivisi con Emilio Salgari e le peregrinazioni a fianco di Sandokan, i pirati e James Brooke. «Ti hanno dimenticato?», gli chiedo con un pizzico di tristezza. «Al Museo di Storia Naturale di Firenze hanno ancora il mio erbario, con i 16.500 “exiccata” che ho raccolto negli anni», mi confessa soddisfatto. «Come potrei essere dimenticato?».