L’Intelligenza Artificiale (AI) fa già parte ampiamente delle nostre vite, ma come si svilupperà in futuro, in che direzione stiamo andando? Ce lo spiega Guido di Fraia, prorettore all’Innovazione e Intelligenza Artificiale della IULM
di Edoardo Pini
L’Intelligenza Artificiale (AI, Artificial Intelligence) è una tema scottante e sta permeando sempre più gli oggetti che possediamo, nonché gli strumenti e i servizi che utilizziamo. Ai più rimembra scene da film di fantascienza in cui robot umanoidi fanno cose da umani e spesso li sostituiscono. Eppure, ad oggi, non sempre riguarda elementi così tanto fantascientifici, tanto che il nostro smartphone è permeato da logiche di AI. Ne parliamo con Guido di Fraia, prorettore all’Innovazione e Intelligenza Artificiale della IULM, nonché fondatore del Laboratorio di Intelligenza Artificiale dello stesso ateneo.
Cos’è l’Intelligenza Artificiale
Come spiegherebbe l’Intelligenza Artificiale ad un bambino?
«L’Intelligenza Artificiale è una tecnologia generalista, come ad esempio l’elettricità, ed è destinata e impiegata in tantissimi ambiti. I primi studi risalgono agli anni 50 del secolo scorso, ma solo ultimamente è diventata particolarmente di moda. Il motivo è che l’AI prima degli anni 2000 richiedeva uno sforzo non indifferente per far sì che le macchine facessero ciò che noi uomini volevamo. Oggi si è scoperto come è possibile permettere alla macchina stessa di imparare autonomamente mentre opera. E più opera, più impara (“Machine Learning”). Per capire la potenza di questa tecnica, consideri che se nel 1997, dopo mesi di programmazione, una macchina è riuscita a battere il campione del mondo di scacchi, nel 2017 il campione mondiale di Go (una sorta di scacchi cinese) è stato battuto da un software senza che nessuno l’avesse programmato. Aveva solamente osservato le partite di altri giocatori. Non da ultimo, nonostante la chiamiamo “Intelligenza” Artificiale, le macchine non sono intelligenti per nulla. Suggerisco infatti di chiamarla “Intelligenza Aumentata”».
È cruciale dare il nome alle cose, infatti Intelligenza Artificiale fa un po’ paura. Perché si chiama così?
«Il motivo risiede nel fatto che John McCarthy, scienziato statunitense, nonché uno dei fondatori dell’AI, volendo stimolare un gruppo di giovani ricercatori a fare un seminario sull’argomento, decise di chiamarla in quel modo. È nata così e dovremo diventare consapevoli di dove viene usata e quanto ci aiuterà nella vita. Quando Spotify ci propone playlist in base ai nostri gusti, ad esempio, c’è dietro un algoritmo di AI».

AI ed etica
Quindi è cambiato l’approccio alla tecnologia, cioè come l’uomo programma le macchine.
«Assolutamente sì. Prima l’uomo dava l’input corretto affinché le macchine sapessero cosa fare. Ora diciamo alle macchine come imparare da sole. Se voglio che la macchina riconosca un gatto nero, le mostrerò migliaia di gatti neri per poi etichettare quell’immagine con il nome “gatto”. Poi le mostro dei panini e dei cani e li etichetto come “panini” e “cani”».
Ci sono aree che saranno maggiormente permeate dall’AI?
«No, in quanto tutto quello che facciamo sarà da lei permeato. Nella sanità, ad esempio, ci ha permesso di individuare in poco tempo le caratteristiche delle proteine del vaccino anti-Covid, mentre con i metodi classici ci sarebbero voluti anni. Nei sistemi informatici, invece, riconosce i virus in base a comportamenti anomali del sistema. Le autovetture a guida autonoma sono guidate da potenti software AI senza l’interazione dell’uomo. Nei processi produttivi è possibile segnalare guasti prima che questi avvengano. O ancora i Chatbots, sempre più diffusi, sono softwares che simulano ed elaborano conversazioni umane, consentendoci di interagirci come se stessimo comunicando con una persona reale».
Non c’è il rischio che la macchina stessa generi un’etica differente da quella umana, per assurdo generata dall’uomo?
«Ad oggi non c’è bisogno di insegnare l’etica alle macchine, in quanto queste apprendono sulla base di cosa e come insegniamo loro. È successo che una macchina, programmata per fare la selezione del personale rilevando anche le espressioni facciali e quindi intuendo le emozioni della candidata/del candidato, scegliesse solamente uomini bianchi per determinate posizioni apicali. Questo è successo non per un pregiudizio della macchina, bensì perché nei decenni precedenti erano stati assunti solo uomini bianchi per quelle posizioni apicali. La macchina si è quindi portata dietro il pregiudizio dell’uomo».

Il futuro degli assistenti virtuali
Essendo le macchine istruite dall’uomo così capaci e veloci, non crede che arriveremo un giorno ad affidarci esclusivamente a loro?
«Se parli a un programmatore ti direbbe che la macchina non ha un pregiudizio ma semplicemente è stata addestrata male. Una ricerca ha dimostrato come una corte degli Stati Uniti d’America concedesse la libertà provvisoria nel 70% dei casi discussi tra le 09.00 e le 11.00 del mattino e dalle 14.00 alle 16.00 del pomeriggio. Nei restanti orari la percentuale scendeva al 30%. Questa differenza è dovuta al fatto che nelle prime ore citate i giudici avevano da poco finito di fare colazione o di pranzare, mentre nelle altre, la fame iniziava a farsi sentire e quindi diventavano più irascibili e più restrittivi. Non siamo consapevoli di quanto, per assurdo, la macchina potrebbe essere molto più etica rispetto all’uomo».
Quali sono i progetti più promettenti di cui vi state occupando?
«Siamo un laboratorio che nasce all’interno della IULM, università che si occupa principalmente di Marketing e Comunicazione aziendale e quindi le nostre attività rimangono legate a questo. Stiamo lavorando molto sull’analisi dei dati che consentono di riconoscere i bisogni delle persone, al fine di sfruttarli in attività di Customer Service o in ambito pubblicitario. Siamo inoltre focalizzati sulla dislessia, cioè sull’incapacità di certe persone di costruire mappe cognitive. Li aiutiamo nello studio così come nell’apprendimento. Un’altra attività è legata alla costruzione di assistenti virtuali (Assistenti umanizzati) che non abbiano solo voci umanizzate ma un vero e proprio Avatar con cui possiamo interagire. Un’altra società con cui stiamo lavorando sta costruendo dei cloni perfettamente identici alle persone. Ci sarà quindi un Edoardo in formato digitale che avrà le tue stesse misure antropometriche e che potrà servire in ambito Marketing così come nel Fashion (potrai farti fare un vestito su misura senza andare in negozio)».

AI e le relazioni umane
Succede spesso che ragazze o ragazzi che affrontano la malattia si ritrovino poi con dei Cv meno attraenti di altri, in quanto presentano, in determinati anni, un vuoto dovuto alle cure. Pensando al software da lei prima citato, verrebbe da pensare che come prima cosa selezioni Cv intonsi in quanto ad esperienze e frequenza di queste. Potrebbe quindi succedere che la persona sopra citata venga scartata a priori. Che ne pensa?
«Sono d’accordo con il fatto che nei ruoli dove le relazioni umane sono fondamentali, queste debbano rimanere e io sono infatti contro quelle macchine che fanno la selezione del personale».
È anche cruciale fare formazione al fine di capire questi strumenti. Ci sono programmi di formazione nelle scuole (magari supportati dal Ministero)?
«Considera che il nostro laboratorio si chiama “Artificial Intelligence for Business and Humanity” e di conseguenza miriamo a disseminare cultura e consapevolezza affinché i cittadini siano consci della tecnologia che hanno nelle loro mani. Non da ultimo, sono da poco uscite le linee guida del piano programmatico dell’AI presentato a Draghi al fine di orientare le politiche del governo su questi temi ed è presente una parte di formazione a 360°, dalle scuole alle PMI».
Guido di Fraia ci promette poi una visita presso il suo Laboratorio e ovviamente non mancheremo all’appuntamento. Sarà la curiosità, sarà la centralità del tema, oppure la voglia di scoprire come sarà il mio clone, a cui delegherò le cose più fastidiose della vita.