È vero, è difficile prendersi cura del destino di un intero pianeta, perché non abbiamo più idea di quanto siano indispensabili alla sopravvivenza della nostra specie il concetto di bene comune e la rilevanza etica del non ancora.
di Federica Margherita Corpina
Incendi in California, migliaia di persone evacuate vicino al lago Tahoe. La Niña è più forte del previsto: le conseguenze estreme sul meteo di quest’inverno potrebbero prolungarsi fino a primavera. 500mila litri di petrolio hanno invaso Huntington Beach: morte migliaia di specie di pesci e di uccelli in un’area di almeno 33 chilometri quadrati. Germania e Belgio in ginocchio: interi borghi cancellati dopo l’alluvione, sale drammaticamente il bilancio delle vittime. Covid Italia, bollettino 15 gennaio: 180.426 nuovi contagi, +351 ricoveri, morti sopra i 300.
Un’etica al plurale
Paura? Io non credo. Chiaro, poi ciascuno è assolutamente libero di rispondere con sincerità e sottovoce, in privato alla propria coscienza, di questa plausibile reazione; ma mi tocca ammetterlo: quello che credo è che l’esposizione ormai quotidiana a questo genere di notizie, costituisca oggi più un’ignara abitudine che un serio motivo di preoccupazione. Salvo eccezioni. E l’abitudine, si sa, pecca un po’ di rigidezza, oltre ad accusare qualche difetto di vista. Ecco, perciò, che veder tenere gli occhi bassi, mentre la cometa che distruggerà la Terra ci passa praticamente sulla testa, mi terrorizza proprio.
Prendo in prestito l’efficace metafora del recentissimo lungometraggio di Adam McKay, l’ormai celebre Don’t look up, per definire meglio la considerazione che sta alla base delle ragioni di questo timore: non c’è ad oggi, nel singolo, la capacità di preoccuparsi per le sorti dell’intera umanità cui appartiene. In altre parole, l’uno non riesce ad avere paura per tutti. Di qui l’urgente necessità di un’etica declinata al plurale, come chiarito dal filosofo Hans Jonas nel volume intitolato Il principio responsabilità; principio, questo, che andrebbe applicato a ogni singolo gesto dell’uomo, perché davvero non possiamo più permetterci di ignorare le conseguenze future delle nostre scelte e delle nostre azioni: la noncuranza non è un privilegio, ma la causa manifesta della nostra rovina.
Prendersi cura del destino del pianeta
È vero, è difficile prendersi a cuore il destino di un intero pianeta, perché non abbiamo più idea di quanto siano indispensabili alla sopravvivenza della nostra specie il concetto di bene comune e la rilevanza etica del non ancora. È solo quando non posso più fare il bagno nel mio pezzetto di mare, quando è la mia casa ad essere stata allagata o distrutta dal fuoco, mio padre ad essere morto di Covid, che abbiamo paura sul serio. E forse neanche allora, se continuiamo a temere soltanto per l’erba del nostro giardino. Che non sia sufficiente fare del proprio meglio nel proprio piccolo per salvare quello di ognuno, è soltanto una scusa, dettata anche questa dalla scarsa capacità di vedersi parte di un tutto: «non basta» non basta nemmeno a sciacquarsi la coscienza.
Piuttosto «agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana»: se sostituissimo l’imperativo dell’etica della responsabilità così formulato da Hans Jonas al più comune e meschino «salva te stesso», forse non riusciremmo comunque a evitare lo schianto; ma potremmo almeno unirci, alla fine di tutto (e del film), all’«io ringrazio perché ci abbiamo provato» di chi, nel proprio piccolo, ha avuto il coraggio di guardare in alto e lottare per quello che ama: la propria casa, e la casa di tutti.