Fiamme Colette Invernizzi Nicosia l’ultima capitale europea ancora divisa a metà, anche sulla carta, dai satelliti Google…
Nicosia è l’ultima capitale europea ancora divisa a metà. Proprio a metà. Anche sulla carta. Dai satelliti Google si vede perfettamente come una sottilissima linea la separi in due parti quasi identiche. Se non fosse che da un lato si parla Greco, si paga in Euro e si prega Dio. Mentre dall’altra parte si scambiano Lire Turche e ci si inginocchia rivolti verso la Mecca. Due parti, dunque. Due continenti, separati e uniti in una città dalle mura veneziane tagliate dal filo spinato e osservate, da ambo i lati, da punte di fucile.
Bordi flebili ma netti, che se li osservi da vicino sembra che parlino la lingua del mondo. Quella lingua fatta degli sguardi e dei gesti, dei silenzi e delle storie segrete degli sfollati. Un po’ come se quelle linee di confine, così sottili sulla carta e impalpabili, fossero capaci di assorbire l’eco incerto di intere popolazioni in movimento. Rilasciando nell’aria un profumo di memoria interrotta in grado di sprigionarsi per gli anni a seguire. Luoghi abitati dalle storie, dalle parole non dette, dalle vite che volevano essere diverse.
Nicosia è esattamente così. Non tutta almeno. Ma quella buffer zone, quella zona di confine, quell’intercapedine interstiziale sa di interruzione. Di sosta improvvisa. Di un addio che non ha avuto il tempo necessario per una stretta di mano di saluto. Tra un muro e l’altro, tra Europa e Asia, in quei pochi metri di case abbandonate e gatti randagi, ci si può infilare l’Ucraina. Ci si può inserire la Germania Est e la Germania Ovest di un tempo. Ci si può immergere dentro anche quello spazio murato tra Stati Uniti e Messico.
Uno spazio abitato di fantasmi e disabitato di pensieri freschi, in cui l’architettura si fa manifesto di un errore temporale che richiama nostalgia e dolore. Uno spazio che fa porre la domanda – forse senza risposta: viene prima l’uomo o l’architettura? Una riflessione ardua, che si mette di fronte alla ricerca di una soluzione che si trova costretta a stare nel mezzo. Architettura umana o umanesimo architettonico. Riqualificare? Demolire e ricostruire? Restituire l’esistente a chi ci ha lasciato dentro un pezzo di cuore?
Fiammetta Colette Invernizzi Nicosia
“Ricucire” restituisce l’immagine di una necessità di avvicinare due lembi di territorio e di pelle, di pensiero e di visione verso il futuro. Come per una ferita, per cui, punto dopo punto, il male viene arginato in una cicatrice indolore. Con cura, senza fretta. Al contrario di una corsa all’uso, di una fuga verso il volgere lo sguardo dalla parte opposta. Non curarsi di ciò che è passato. «Il tempo contemporaneo non produce rovine ma solo macerie», scriveva Marc Augé, «non ne ha il tempo». Per i confini accade la stessa cosa. Il tempo insufficiente per la cura adeguata, la necessità di un «andare oltre». Chaque civilisation a les ordures qu’elle mérite, scrisse Georges Duhamel al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti tra il 1929 e il 1930. Ogni civiltà ha la spazzatura che si merita.
Nei successivi novant’anni al feticismo delle merci (già teorizzato da Karl Marx) sono seguiti il boom economico degli anni 50 e 60. Lo sviluppo della commercializzazione dei beni di consumo degli anni 70-80. La terza rivoluzione industriale, globalizzazione e normalizzazione di un gesto legato all’acquisizione indiscriminata di beni – spesso non necessari – definiti consumismo contemporaneo. L’effetto più grande di questa catena di eventi? Generazione di rifiuti, di confini dimenticati, di architetture mute dal sapore di maceria, esseri umani sbiaditi, sagome senza nome.
Fantasmi abitanti di luoghi fantasma, sempre posizionati in un «tra» qualcosa e qualcos’altro. Avanzi. Spazi vuoti-incerti come luoghi che hanno cessato di svolgere la funzione per cui sono stati realizzati e ora sono caduti in uno stato di sospensione. Avanzi. In quanto prodotti in una società che considera i rifiuti la propria religione, rappresentano una risorsa straordinaria. Non solo in grado di svolgere nuove funzioni senza produrre ulteriore consumo di suolo, ma anche considerati custodi della memoria umana.
Come vecchi libri, conservando le loro vecchie copertine a memoria del loro passato, gli edifici abbandonati di confine possono essere rinnovati dall’interno. Nidi contemporanei, capaci di adattarsi al modo di vivere. Capaci di produrre nuovi spazi per relazioni. «Un modo semplice per conoscere una città o un luogo». «Cercare di capire come in quella realtà si lavora, come si ama e come si muore». Diceva Albert Camus nel La Peste. Fin troppo spesso i resti architettonici hanno il potere di racchiudere tutta la complessità di una narrazione antropologica dell’uso degli spazi interni. Uniche e pronte per essere ascoltate, accolte e riportate alla luce.