La storia di Veronica Pieri e la diagnosi di CIPO, malattia rarissima per la quale ci si può alimentare solo artificialemente tramite un catetere.
di Veronica Pieri
Ho cominciato a stare male nel 2008, a 14 anni. Ma ho scoperto di che cosa soffrivo – e soffro – soltanto undici anni dopo, nel 2019. La mia malattia si chiama CIPO, che sta per «pseudo ostruzione intestinale cronica»; è una malattia rarissima, che non ha una causa precisa e colpisce le persone per ragioni diverse.
Nel mio caso so soltanto che il mio apparato gastrointestinale, dall’esofago al colon, è andato in tilt per una forte infiammazione. E la mia vita ne è uscita completamente cambiata. Stravolta. Da quando mi è stata diagnosticata, ho dovuto smettere di mangiare, e anche di bere, bevo pochissimo, rischiando sempre di stare molto male.
Ormai sono quattro anni che mi nutro in maniera parenterale: ho un catetere venoso centrale di fianco al cuore, nella vena portante, e da lì mi alimento. Bisogna avere estrema cura nella disinfezione del catetere, perché si rischierebbero delle infezioni molto gravi. La nutrizione parenterale non è come mangiare normalmente. E presenta pro e contro: se da un lato infatti mi ha permesso di riprendere peso, dall’altro mi causa stanchezza cronica.
Convivere con la CIPO
Ma non ci sono alternative: la CIPO è una malattia talmente rara che le grandi case farmaceutiche non hanno interesse a studiarla, a destinare fondi per la ricerca di una cura. Infatti di cure specifiche non ce ne sono, e i medici per primi non sanno come muoversi.
Mi chiamo Veronica, ho 29 anni, sono di Roma, ma vivo a Bologna. Mi sono trasferita qui nel 2020 per curarmi, perché qui la Baxter, un’azienda che per quanto riguarda l’assistenza nell’alimentazione parenterale, mi supporta molto meglio delle Asl di Roma che invece mi creavano continui disagi.
Mia madre mi ha seguita e ora lavora all’Ospedale Maggiore della città; vuole trovare una casa dove andare a vivere insieme, perché per me stare da sola è ormai diventato impossibile. La gestione della malattia occupa il 90 per cento della mia giornata – ragion per cui non ho più un lavoro – se poi ci aggiungo la cura della casa e di due cani un po’… pazzi, la vita diventa troppo difficile e faticosa. Ingestibile. A volte le mie energie sono talmente basse che mi butto sul divano, sfinita, senza la forza di fare altro.
Quando ho cominciato a non stare bene, non avrei mai pensato di ritrovarmi in questa situazione. A iniziare dal calvario che ho dovuto sopportare prima di capirci qualcosa. Tutto cominciò con forti dolori addominali che mi portarono a mangiare pochissime cose, principalmente cibi in bianco e minestrine, e che continuarono per quattro anni, finché a 18, grazie a un’ecografia, i medici scoprirono un calcolo di feci nell’appendice. Era questa, secondo loro, la causa di tutti i miei disturbi. Venni operata e mi sentii meglio, ricominciando a mangiare di tutto e ad avere una vita normale.
Il tracollo avvenne due anni dopo, quando ricominciai a stare malissimo: costante perdita di peso, oltre venti scariche intestinali al giorno e febbre a 39. Mi venne diagnosticato il morbo di Crohn, e cominciai a curarmi con cortisone e antiinfiammatori specifici. Ma quattro mesi dopo, un’altra colonscopia in un centro specializzato, smentì la diagnosi precedente: non soffrivo del morbo di Crohn (ancora oggi non so se l’ho avuto o no). Anzi, non avevo niente, mi dissero. Eppure i miei problemi permanevano: forti dolori addominali, fatica a nutrirmi, intestino irritato, scariche continue (per limitarle mangiavo pochissimo).
La diagnosi di CIPO
Però cercavo di vivere normalmente, di continuare a fare le cose che avevo sempre fatto: il lavoro, la palestra, il rapporto con gli amici. Finché dal 2017, a causa di un intervento nel quale rimossero alcune aderenze che ostruivano dal cieco fino al fegato – «Tranquilla: ora sei guarita», mi dissero – la situazione peggiorò a tal punto da farmi diventare un’habitué del Pronto Soccorso, dal quale venivo però sistematicamente rimandata a casa perché i medici non sapevano che cosa fare.
Anche i ricoveri non portavano a niente. E io continuavo a stare male. Consultai nutrizionisti, dietologi, omeopati, chiunque pensavo mi potesse aiutare. Ma le diagnosi erano sempre diverse: che ero una malata immaginaria, che avevo solo una digestione più lenta delle altre persone, che dovevo riavviare il sistema perché non mangiando lo avevo disabituato a un ciclo regolare. Una cura soltanto a base di estratti non fece che peggiorare il mio stato di salute.
Un anno dopo pesavo 36/37 chili, non mangiavo più niente e venni nuovamente ricoverata. Fu allora che mi diagnosticarono una gastroparesi, per curare la quale, mi dissero, era necessario togliere lo stomaco. Avevo 25 anni, ed ero traumatizzata dalle esperienze precedenti, così mi rifiutai.
Fu grazie a ulteriori esami cui mi sottoposi a Bologna, che i medici si accorsero che il mio intestino si muoveva: una peristalsi sbagliata, a volte addirittura inversa, era la causa dei miei forti dolori. Ero malata di CIPO.
Tutto questo calvario mi aveva isolata. Non frequentavo più i miei amici, che a loro volta, spesso, non mi invitavano a uscire sapendo delle mie difficoltà. La malattia fa paura, le persone non sanno come comportarsi con te. E si allontanano. E io, costretta ad adattarmi a questa nuova vita – niente cibo, niente bere – non mi sentivo più io.
Associazione Gipsi ODV
È stato uno choc. «Questo non è più il mio corpo», mi dicevo, «Non sono più Veronica». Finché ho conosciuto Dario Mandreoli, un ragazzo che soffre della stessa mia patologia e che, come gli altri nella nostra stessa situazione, si appoggia all’Associazione Gipsi ODV che ci sostiene e ci aiuta anche nella gestione degli aspetti burocratici, facendoci sentire meno soli.
L’ha creata il professor Vincenzo Stanghellini, grazie al quale la nostra malattia è stata inserita tra quelle rare – fino a una decina di anni fa noi eravamo tutti «ammalati di testa». Bene: grazie a Dario ho ricominciato a vivere, ho accettato la mia malattia, la mia situazione. Lui, con la sua energia, il suo non lasciarsi mai bloccare dalle difficoltà che questa patologia comporta – non mangia e non beve da 14 anni! -, mi ha aiutata a uscire dall’autodiscriminazione nella quale mi ero rinchiusa. Quando vengo a Milano, andiamo insieme ai concerti, nei locali, a fare gite sul lago. Penso che tutti dovrebbero avere vicino una persona come lui, che ha tirato fuori il meglio di me.
Ma ovviamente devo moltissimo anche alla mia famiglia, che mi è sempre stata accanto, che ha fatto sacrifici, che ha sofferto con me e senza la quale non ce l’avrei fatta. E devo molto anche all’Ospedale Sant’Orsola, e al professor Stanghellini, alla dottoressa Cogliandro, al professor Pironi, alla dottoressa Sasdelli e a tutta l’equipe per la nutrizione parenterale: mi hanno salvata e mi hanno dato una seconda vita. Voglio ringraziare anche Marzia e Anna dell’Associazione Gipsi, che hanno fatto dell’aiuto a tutti noi la loro missione.
Il futuro? Posso dire che questa esperienza mi ha insegnato molto. Mi ha cambiata. Mi ha fatto scoprire che, per quanto io sia una persona molto fragile, so anche essere molto forte. Sono fiera di me e di come sono diventata, perché gestire da sola una patologia così grave e così importante, soprattutto ultimamente, non è facile, non è da tutti e richiede una forza immensa. Ma la mia voglia di vivere, oggi, è più forte e più grande di quella di tante persone sane. Vedo molti che si buttano giù per niente, quando invece hanno tutto, e io pagherei oro per avere un pizzico della loro normalità. Io credo che la vita, per quanto sia difficile – perché ognuno di noi ha problemi, ognuno di noi soffre – valga la pena di essere vissuta. Tutti abbiamo momenti brutti, ma dobbiamo sempre trovare la forza per andare avanti.