LA CULTURA CI RENDE LIBERI O PRIGIONIERI?

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«Chi ama la cultura e l’arte non può che essere contro la guerra», queste le parole del ministro Dario Franceschini qualche giorno fa.

di Loredana Beatrici

«Chi ama la cultura e l’arte non può che essere contro la guerra». Queste le parole pronunciate dal ministro Dario Franceschini qualche giorno fa. Un pensiero che ci riporta a Socrate, secondo cui «il sapere rende liberi e l’ignoranza prigionieri»; o a Paolo Crepet, per il quale «senza cultura non c’è libertà, perché non c’è scelta». Dal mondo della cultura che sta subendo perdite importanti, come la distruzione del memoriale dell’Olocausto di Babyn Yar; del Museo di Storia Locale di Ivankiv, si alza all’unisono una voce di dissenso contro la guerra e solidarietà verso il popolo ucraino. Civili, istituzioni museali e governi stanno offrendo sostegno per evacuare dalle zone belliche opere d’arte, libri e archivi. Si moltiplicano le iniziative a supporto degli artisti colpiti; come il Culture of Solidarity Fund della European Cultural Foundation, o la Filarmonica della Scala di Milano che ha suonato a porte aperte.

Il mondo dell’arte si è mobilitato anche con la vendita di opere NFT. Come il video girato dall’artista russa Olive Allen mentre brucia il passaporto davanti al consolato a New York. La comunità artistica internazionale non ha esitato a schierarsi contro il conflitto. Elena Kovalskaya, direttrice del Teatro Statale di Mosca, si è dimessa con un forte messaggio; «È impossibile lavorare per un assassino e ricevere uno stipendio da lui». Si sono dimessi anche gli artisti del padiglione Russia della Biennale di Venezia e il vicedirettore del museo Pushkinin, Vladimir Opredelenov. La cultura che si eleva sopra la guerra. Che unisce i popoli. La cultura che salva e commuove, come quel Frozen cantato dalla piccola Amelia nel bunker. 

Eppure la cultura non è solo questo. Se consideriamo la definizione antropologica, ripresa dall’UNESCO, per cultura non si intende solo istruzione, arte e formazione; ma «l’insieme delle caratteristiche spirituali, materiali ed emotive di un gruppo sociale. Riunisce stili di vita, credenze, costumi e opinioni». La cultura, quindi, permea dal basso la società civile e ne influenza le scelte. Per questo è, da sempre, efficace strumento politico. Il filosofo Alexander Moseley sottolinea come addirittura la guerra sia un fenomeno culturale; «la guerra è prima di tutto una scelta, l’adesione a credenze condivise, che spingono verso l’utilizzo della forza fisica per risolvere il contrasto».

In quest’ottica la cultura può diventare propaganda nei regimi totalitari e manipolazione dell’opinione pubblica nei sistemi democratici. La propaganda di guerra è un importante mezzo militaristico, il cui compito è creare un’identità collettiva, un consenso intorno al leader e denigrare l’avversario. Il più potente sistema propagandistico è stato generato durante la Prima Guerra Mondiale dall’Inghilterra; mentre i primi a scoprire la forza della propaganda sono stati i tedeschi, già nel periodo di Bismarck. Nel ‘900 i principali strumenti di propaganda erano su carta stampata e venivano assunti scrittori, pittori e musicisti; con le loro creazioni raggiungevano e convincevano le masse.

L’utilizzo di questi artisti ha portato, il celebre critico d’arte Demetrio Paperoni, a sostenere che «l’arte è politica sempre». Con Benito Mussolini, che da giornalista conosceva il potere della comunicazione, anche l’Italia ha assaggiato la propaganda di regime. All’inizio col controllo sui giornali, attraverso direttori iscritti al Fascio; l’istituzione dell’Ordine dei Giornalisti, i cui membri dovevano far parte del partito. Infine con la nascita del Ministero della Cultura Popolare. La guerra in Etiopia, per esempio, fu accompagnata da un’imponente campagna di propaganda: sei edizioni giornaliere del notiziario radiofonico che parlavano solo dell’Africa; i cinegiornali; le tavole illustrate della Domenica del Corriere e del Corriere dei Piccoli; che spiegavano con immagini il conflitto. La propaganda ha un suo linguaggio: fa leva sulle emozioni, parla alla pancia e annienta la capacità di ragionare logicamente. Ha le sue regole: coloro che dissentono vengono censurati.

Immagine di propaganda russa
Immagine di propaganda russa

Cultura e propaganda

La propaganda ha successo quando le persone sentono le idee imposte, come proprie. Anche in questi giorni constatiamo come la comunicazione da parte dei leader politici faccia leva su sfere emotive. Pensiamo al video ucraino, in cui si mostra una Parigi bombardata. Tentativo per spronare i francesi. Un altro esempio è l’utilizzo, da parte di Putin: vendere la guerra come «umanitaria». La professoressa Diez ricorda come questo espediente sia stato usato anche in Jugoslavia, poi in Afghanistan, Iraq, Costa D’Avorio, Libia, Siria. Parlare di guerra umanitaria fa appello alla buona coscienza delle persone; presenta il conflitto in termini manichei (bene e male), costringendo a prendere una posizione e a demonizzare il nemico, come accaduto con Saddam Hussein o Gheddafi. Fa appello ai sentimenti anche la diretta «Difensori per la pace», trasmessa dal Ministero della Pubblica istruzione russo.

Un video presentato dalla cantante dodicenne Sofia Khomenko, che spiega come le immagini di guerra siano fake. «Una lezione sulla pace nel mondo» titolo del cartone animato che spiega ai bambini russi l’«Operazione Militare Speciale». La propaganda, nei governi democratici, prende il nome di manipolazione dell’opinione pubblica. È un fenomeno che trova radici (anche virtuose) già nel 1945, con il Piano Marshall, nacque Fulbright, un programma di borse di studio offerte ai cittadini europei nelle più prestigiose università americane. Una bella iniziativa che aveva (e ha tuttora) un risvolto interessante. Il vincolo che, al ritorno dall’esperienza americana, lo studente venga impiegato in enti pubblici o di rilievo nel proprio Paese. Un modo lento ed efficace di compenetrare una cultura.

Il pubblicista statunitense Edward Bernays, fondatore delle moderne pubbliche relazioni e autore del libro Propaganda, spiega «in ogni società democratica vengono manipolati in modo consapevole e intelligente i costumi e le opinioni. I vecchi propagandisti basavano la loro attività sulla ripetizione continua del messaggio, martellando con argomentazioni fasulle […] La nuova propaganda realizza prodotti a partire dalle esigenze della popolazione e la colpisce in modo mirato». I metodi per influenzare la cultura di massa cambiano in base ai media di riferimento. Il conflitto a cui stiamo assistendo è forse il più mediatico della storia. Una guerra che viviamo in diretta, come un reality. Non c’è regia che la edulcora, non ci sono montaggi che eludono l’orrore. Questo offre l’illusione di avere accesso alla verità; ma come sostiene Bernays, «Nothing Is True Nothing Is Untrue… all human actions and interactions are psychological».

Quella che reputiamo verità, viene letta con le lenti distorte della cultura in cui siamo immersi. È difficile distinguere le fake news che si moltiplicano e usano canali sempre più sofisticati, come i live streaming su TikTok. I social alimentano la fabbrica del consenso. L’Oxford Internet Institute segnala come più di 70 Paesi li usino per manipolare l’opinione pubblica. La cultura, quindi, ci rende liberi o prigionieri? Siamo come gli uomini nella caverna di Platone o come il filosofo che vi esce per vedere il sole? Paolo Crepet sottolinea come l’unico modo per «non essere schiavi delle opinioni di altri è leggere e aprire le porte della mente. È l’unica formula per decodificare una realtà sempre più complessa». Bisogna studiare il passato e conservare il proprio spirito critico. Dobbiamo fare della cultura un sapere umanitario. Che ci fornisca un’identità culturale, ma che sia aperta alle altre identità.

Il fisico e saggista Carlo Rovelli sostiene che se cediamo al «mondo manicheo diviso tra buoni (democrazia) e cattivi (dittature), dove l’unica soluzione è imporre le nostre idee, il mondo andrà verso la catastrofe». La cultura deve liberarci dalla paura del diverso, che è alla base di tutte le guerre. Così come è accaduto la notte del 25 Dicembre del 1914 in trincea, quando i soldati tedeschi e inglesi uscirono allo scoperto per farsi gli auguri, disobbedendo ai comandanti. Umani. Senza paure. Questa la lettera scritta dal bavarese Josef Wenzl, dopo quella notte di cento anni fa, un esempio di cultura che ci renderà liberi: «Tra le trincee uomini fino a quel momento feroci nemici, stavano insieme intorno a un albero in fiamme a cantare le canzoni di Natale. Non dimenticherò mai questa scena. I sentimenti umani sopravvivono, persino in questi tempi di uccisioni e morte».

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