Intervistiamo Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, da decenni si occupa di dare speranza e aiuto a chi ne ha bisogno in giro per il mondo. Oggi l’aiuto ai giovani di ogni paese è fondamentale per costruire la pace di domani.
Cosa e come vi guida nelle vostre iniziative, qual è lo spirito che vi muove?
«Noi siamo una comunità cristiana, seguiamo quindi uno spirito evangelico. Quando Gesù dice: “Beati gli operatori di pace”, non sono parole che possono restare nel vuoto, devono essere vissute nel quotidiano, sprigionando energie di bene. Questo a livello anche più vasto, come è avvenuto ad esempio, nelle trattative di pace per il Mozambico agli inizi degli anni 90. Svolgevamo attività di cooperazione, ma quando c’è una guerra anche la cooperazione è in grave difficoltà. Tanti aiuti vanno persi, e la società non si sviluppa. Perciò, accanto a questo tema abbiamo pensato di intervenire sulle radici della guerra e di lavorare su una mediazione di pace. E in fondo questo è quello che ci guida nella vita di tutti i giorni, ad esempio, nelle periferie delle grandi città, non solo in Italia ma pure nel resto d’Europa e nel mondo».
Crede che oggi gli individui si sentano più isolati?
«Come dice lo studioso Ulrich Beck nel suo libro La società globale del rischio, la globalizzazione può portare molti vantaggi ma anche svantaggi: la gente si sente sempre più sola in un mondo troppo grande, attraversato dai grandi venti freddi della Storia. Quindi, come convivere in questa imprevedibilità della Storia? Ricordando le parole del sociologo Zygmunt Bauman, le nostre società sono oggi composte da tante monadi, persone sole, autoreferenziali, senza più legami forti. Prima nelle periferie si vedevano i partiti politici, i sindacati, c’era tutta un’organizzazione, oggi non è più così. La gente è sola, non ci sono più le reti che c’erano un tempo. Facevamo tutti parte di un gruppo, di un’associazione, di un partito: avevamo dei riferimenti esterni a noi che ci mettevano insieme ad altre persone. Oggi cosa si vede? Appena qualche associazione cattolica e di volontariato, le parrocchie e poco altro. Uno dei grandi temi di Sant’Egidio è proprio quello di ricreare le reti che sono saltate, con particolare attenzione alle persone più svantaggiate».
Disugualianze, scuola e l’aiuto ai giovanissimi
Non pensa che la globalizzazione, di cui ha parlato, crei una sempre maggiore sperequazione tra ricchi e poveri, con il rischio di un’ulteriore difficoltà di convivenza?
«Certamente. Faccio l’esempio delle grandi città africane e dell’America latina: si vedono le case dei ricchi in compound super protetti dietro mura altissime, controllate da vigilantes, e a fianco enormi slum dove mancano persino acqua ed elettricità. Queste diseguaglianze sono fonte di grandi drammi nella vita delle persone, e possono portare a delle rivolte. Già negli anni 60 Frantz Fanon diceva che i dannati della Terra si rivolteranno. Ad esempio oggi – e purtroppo possiamo notarlo in molti Paesi africani – c’è una ribellione condotta da gruppi fondamentalisti islamici, che si stanno allargando molto, a partire dalla Somalia fino a buona parte dell’Africa orientale. Le violenze sono esercitate da questi gruppi terroristici, che godono però di una certa base anche tra le persone comuni. È una sorta di rivolta anche questa, intercetta un bisogno dettato dalle sperequazioni citate, ma sia ben chiaro che non la giustifico affatto. Oppure c’è un altro tipo di grande rivolta, quella delle migrazioni, della gente che “vota con i piedi”, cioè lascia il proprio Paese perché non ne può più di essere sfruttata, di non avere alcuna possibilità di lavoro (come succede a milioni di giovani africani), della corruzione e di tanti altri problemi. Le persone emigrano nella speranza di potersi costruire un futuro migliore in altre società».
Tornando alle città italiane, e pensando ai giovanissimi, ultimamente sono saliti alla ribalta fenomeni di violenza e di micro criminalità che coinvolgono bande di ragazzi. Come è possibile risolvere questo problema riportando tutti a una convivenza pacifica e civile?
«È un fatto che riguarda il modo di rapportarci di noi adulti con il mondo giovanile. Per fortuna vedo una barriera positiva rappresentata dalla scuola. La vedo come il luogo vero dove si impara a convivere. Certo, poi esistono fenomeni di bullismo o di razzismo, ma in buona sostanza la scuola italiana è sana, è il luogo dove i ragazzi si incontrano, imparano a vivere insieme, conoscono persone che provengono da altri mondi, di altre religioni e culture. Ma se la scuola è sana bisogna continuare a investirci perché diventi anche un ambiente di educazione alla pace. E la pace è qualcosa su cui occorre lavorare di più, dovrebbe essere inserita a fianco dell’educazione civica nei programmi scolastici. Per quanto ci riguarda, la Comunità di Sant’Egidio si muove in Italia con una rete di cosiddette “Scuole della pace”. Sono dei doposcuola tenuti da giovani volontari, liceali o universitari, nelle periferie di tante città, dove i bambini più in difficoltà vengono aiutati a studiare e a fare i compiti, ma dove si insegna anche la convivenza, tramite la conoscenza dell’altro e le attività tutte rivolte al tema della pace e del vivere insieme».
Più integrazione per i giorvani italiani
In quello che ha appena detto ha toccato altri temi importanti, come l’integrazione e la cittadinanza italiana per i figli di stranieri.
«Ci sono migliaia e migliaia di minori cresciuti nelle nostre scuole cui non viene ancora riconosciuta la cittadinanza italiana, c’è un grave ritardo nella nostra legislazione riguardo a questo tema. Ciò significa l’esclusione di tanti ragazzi e ragazze, noi spingiamo molto perché il cosiddetto ius scholae o ius culturae porti alla riforma della legge sulla cittadinanza. C’è poi ancora moltissimo lavoro da fare per l’integrazione, che viene lasciata alla scuola o al mondo del lavoro, ma non ci sono programmi né investimenti in tal senso a livello centrale. Al tempo della presidenza di Napolitano e del governo Monti, era stato istituito, con il nostro fondatore Andrea Riccardi, il Ministero per l’integrazione: era una via importante, lo Stato si assumeva questo compito, senza lasciarlo solo agli enti locali, scuole o associazioni. In seguito però, questa iniziativa è stata lasciata cadere, ed è un vero peccato».
Quali sono le vostre attività a favore della popolazione ucraina?
«Premetto che la Comunità di Sant’Egidio è presente in Ucraina dal 1991 nelle principali città, con cittadini ucraini sia greco-cattolici sia ortodossi, che pregano insieme e svolgono le stesse attività portate avanti da noi, come un grande lavoro sociale sul tema della pace. Abbiamo quindi, una presenza ben radicata, inviamo loro molti aiuti che sappiamo vengono ben distribuiti. Poi, ovviamente, accogliamo rifugiati, con una particolare attenzione verso le persone malate, soprattutto dializzati. Più di 100 ucraini bisognosi di dialisi sono adesso ospitati in Italia e curati in ospedali italiani. Naturalmente assistiamo anche altre famiglie, grazie al sistema collaudato dei corridoi umanitari, con un’immigrazione legale e sicura, in collaborazione anche con le comunità protestanti».
I giovani hanno tantissimo da dire
Tra i molti progetti che avete in giro per il mondo, ce n’è uno che le sta particolarmente a cuore?
«C’è un programma molto bello che si chiama BRAVO (Birth Registration for All Versus Oblivion) che consiste nell’iscrizione dei bambini allo stato civile in Africa: il 70% dei bambini in quel continente non viene registrato alla nascita per diversi motivi: ignoranza, scarsa comunicazione, mancanza di uffici anagrafici, costi dell’iscrizione che molte famiglie non si possono permettere. In questo modo si nega ai bambini il diritto di esistere: con il nostro programma diamo loro una seconda nascita. Attualmente siamo operativi in tre Paesi: Malawi, Mozambico e Burkina Faso. In quest’ultimo, in soli quattro anni abbiamo già registrato tre milioni di persone, in accordo con il governo, creando centri di registrazione anche nei piccoli villaggi. Ne abbiamo parlato anche in un nostro libro, Nascere non basta (Ed. San Paolo)».
Ha un messaggio di incoraggiamento e di speranza da mandare ai giovani?
«Uso la metafora del tunnel in cui spesso ci sembra stare, ma in fondo al quale c’è una luce, che è il “noi”, e dico ai giovani di non andare avanti da soli, ma insieme. Inoltre li esorto a prendere la parola, a non essere timidi, a esprimere i loro bisogni e necessità, anche i loro sogni, un po’ come avveniva nel ’68 con “la presa della parola”. Poi però, mi rivolgo anche agli adulti dicendo loro: ascoltiamoli! I giovani hanno tantissimo da dire, e le loro idee non vanno schiacciate dal mondo degli adulti».