L’attore comico Paolo Kessisoglu ci dona un’importante lezione sulla leggerezza e di come questa non debba mai essere fraintesa per superficialità.
«Passare da Nicolai Lilin a Paolo Kessisoglu… io non c’ho un cazzo da raccontarvi», (ride ndr.)
È iniziata così la nostra chiacchierata, estemporanea e leggera.
Leggera come la parola che abbiamo provato ad analizzare. Leggera come le persone che riescono a trovare la comicità anche dove sembra non esserci, per necessità e per far stare meglio chi ascolta.
Per voi lettori una sola raccomandazione… non prendetela troppo sul serio.
Che cos’è la leggerezza? E quanto è difficile lasciarsi andare in periodo storico come questo?
«La leggerezza è un concetto che vuol dire più cose. La leggerezza non è direttamente collegata al far ridere; in questi momenti far ridere significa cercare di vedere la realtà da un altro punto di vista; non stare né da una parte né dall’altra, tentare di non giudicare. Tutti abbiamo il “culo sporco“. Anche se non c’entriamo niente con un bombardamento in una scuola o con la guerra tra la Russia e l’Ucraina, ci sono molte cose su cui possiamo essere responsabili. Quando dobbiamo far ridere, e le notizie sono tragiche, non possiamo far altro che cercare un punto di vista diverso; quindi spostare l’attenzione dalla guerra, al rapporto che hanno i nostri politici con la guerra. Che non hanno un pensiero lineare e ci fa ridere il modo in cui si comportano. Io non credo che al posto di un determinato politico potrei fare meglio; non invidio per la posizione di uno come Conte; quello che però fa ridere è la capacità che ha di non rispondere e di avvalersi della Supercazzola per evitare di prendere una posizione. Dal mio punto di vista leggerezza significa porsi in una prospettiva diversa rispetto al modo in cui si pongono le notizie da cui veniamo travolti».
Leggerezza e superficialità
Come distinguiamo la leggerezza dalla superficialità?
«La leggerezza è riuscire a planare su un campo minato senza saltare in aria, la superficialità è dare una pedata a una mina e lasciarci le penne. La superficialità è frutto dell’ignoranza e dell’inconsapevolezza, la leggerezza invece è l’opposto: significa sapere bene quello che si ha davanti e agire di conseguenza, e trovo che sia assolutamente necessaria. Nel mio lavoro sono costretto a pormi di fronte ai fatti del mondo, e tutte le settimane devo tirare fuori dieci minuti in cui cercare di fare ridere, e quando i fatti del mondo sono una guerra o una pandemia con milioni di morti, è una cosa difficilissima, poi col tempo ci si abitua, ed è una cosa tremenda, ma quando due mesi fa sono iniziati i bombardamenti non avevo idea di cosa fosse giusto fare».
Non hai paura di non essere preso sul serio se smettessi di cercare la sfumatura comica?
«Non amo i comici che si schierano, che vanno a fare politica. Credo che le cose che non vanno ci siano da una parte e dall’altra, siamo tutti peccatori. Il comico che punta il dito non fa mai un buon affare, e soprattutto se non sei apertamente schierato né di qua né di là è più facile far ridere in televisione, perché puoi prendere in giro sia una parte che l’altra. Non credo neanche che un comico dovrebbe andare a dire cose serie senza legarle a un progetto artistico; il rischio altrimenti è che diventi subito una lezione di etica, e non sto dicendo che un comico non abbia la sua etica, ma semplicemente non sarebbe credibile, e più importante ancora, a nessuno gliene fregherebbe niente. Cosa importa alla gente di quello che pensa Paolo Kessisoglu della guerra in Ucraina? I più grandi comici sono stati in grado di fare passare messaggi importanti attraverso la loro arte, e allora sì che ha un senso. Per esempio prendiamo il monologo di Chaplin ne Il grande dittatore, è un messaggio fortissimo espresso in uno dei pezzi più belli che il cinema abbia conosciuto, ma per farlo non è andato in un programma Tv a esprimere il suo parere, si è messo dei baffi finti, un cappello, una divisa nazista e ha fatto parlare il suo personaggio. Ha parlato attraverso la sua arte in maniera molto più efficace. Ci sono modi e modi di fare arrivare dei messaggi, il mio è quello di fare dei dialoghi comici cercando di arrivare a dei concetti concreti attraverso la risata, attraverso il mio lavoro, senza andare in televisione a raccontare le mie opinioni. L’arte è spesso in grado di prevedere e suggerire quello che potrebbe accadere, basta saperla ascoltare».
Comicità sta nel non schierarsi
Come è cambiato il tuo lavoro nel corso degli anni?
«È cambiato tantissimo, ho molti più freni perché ci sono tantissime cose su cui non si può più scherzare. C’è una gran confusione su quello che è lo scopo della satira e della comicità. La grossa differenza tra scherzare su un fatto e prendere in giro la persona che l’ha compiuto. L’altro giorno mi è capitato di vedere una scena di un film di Bud spencer e Terence Hill in cui prima di una rissa i due protagonisti fanno finta di essere sordomuti. Ecco, oggi dopo cinque minuti ci sarebbe un’associazione di sordomuti che ti chiama per dirti che quella scena li ha offesi. Che stai prendendo per il culo i sordomuti. Non lo so come siamo arrivati a questo, però so che su certe cose non si può più scherzare perché si è frainteso. Si è perso, il concetto di comicità. Se rido di una cosa non vuol dire che prendo per il culo la persona. Semplicemente prendo per il culo quella cosa lì, fine a sé stessa, che chiunque potrebbe fare o dire, senza voler dare dell’idiota a nessuno. La chiave di lettura è importante. Il risultato è che ci si autocensura molto di più. Non sai mai chi può sentirsi offeso da quello che viene detto. Nel mio lavoro incomincio a offendere qualcuno, è chiaro che il mio lavoro non ha più senso, non ha nessuno scopo. È per questo che dobbiamo ritrovare la leggerezza, per riuscire a planare sulle disavventure e per ridare importanza alle cose che importanti lo sono davvero».