Intervista a Agnese Pini, neo-direttrice della Nazione

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Agnese Pini, è la prima donna direttrice della Nazione in 160 anni di storia. Nel 2021 la rivista Forbes la inserisce fra le 100 italiane di successo di quell’anno.

di Annagiulia Dallera

Passione, sogni, progetti, ma anche tanto studio e pazienza. La propensione per il mondo letterario e la scrittura erano già in quel 110 e lode preso a Pisa con una tesi in lettere, sulla corrispondenza tra Vittoria Colonna e Michelangelo Buonarroti. Agnese Pini, nata a Carrara nel 1985, è la prima donna direttrice della Nazione in 160 anni di storia. Nel 2021 la rivista Forbes la inserisce fra le 100 italiane di successo di quell’anno. Agnese Pini dal primo luglio diventerà direttrice di Quotidiano Nazionale, il marchio che riunisce, oltre alla già menzionata Nazione, anche Il Resto del Carlino e Il Giorno. 

Come convivono le testate giornalistiche che sono sotto il marchio «QN»? C’è una sinergia tra le tre o è difficile tenerle insieme? 

«È complicato e la vera sfida di un gruppo editoriale così grande e importante è quella di tenere insieme le potenzialità di territori che hanno bisogno del loro bacino di riferimento per essere forti. Far convivere insieme tutte queste realtà oggi è un’unica chance armoniosa per far funzionare bene le cose». 

Quali sono le doti che deve avere un giornalista?

«La qualità principale per intraprendere la strada del giornalismo è essere idealisti. Poi bisogna avere molta pazienza ed essere colti. Gramsci diceva che la cultura è appassionarsi alle cose. Bisogna sentire dentro di sé l’amore per la cultura, coltivare degli interessi e avere una curiosità appassionata, perché su quella il giornalista può costruire il suo bacino di conoscenze». 

Cosa vuol dire avere cultura per Agnese Pini?

«La cultura può essere riferita a qualsiasi cosa: se sei appassionato di cinema, vai a vedere un film tutte le sere; se ti piacciono i fumetti, compri tutti quelli del tuo autore preferito; se ami la musica, vai a tutti i concerti dei Måneskin».

Come si entra nel mondo del giornalismo?

«È molto complicato perché non c’è un accesso univoco alla professione. Non c’è un percorso chiaro. Consigliano le scuole di giornalismo, ma non è l’unica via. Se manca la spinta ideale, un grande desiderio di fare questo mestiere, si rischia di arrendersi alla prima porta chiusa, alle prime difficoltà».  

La laurea è imprescindibile per una carriera giornalistica?

«La laurea è utile, ma non è imprescindibile un percorso di studi definito. A un ragazzo che deve iscriversi in università e vuole fare il giornalista, consiglio di scegliere la facoltà che ama di più. L’università è il primo momento della vita in cui puoi fare veramente quello che più ti piace». 

Non sempre è facile per un ragazzo a 18/19 anni sapere ciò che ama…

«Gli anni dell’adolescenza sono quelli in cui si capisce ciò che si è, se si ha la pazienza di guardarsi allo specchio con profondità. C’è una frase di Nietzsche che dice che bisogna diventare ciò che sei. Quando ce la fai, tutto ti riesce più facile. Le cose non funzionano, sono faticose, frustranti o dolorose quando prendi delle strade che non sono le tue. Vivi una vita sempre a metà. Quando diventi ciò che sei, fai quello che ami, la vita è molto più bella e sei una persona più piena».

Perché è importante studiare?

«È importante per capire cosa ami, cosa sei. Lo studio ha come obiettivo quello di entrare in contatto con sé stessi e se uno si ascolta, legge e studia, si guarda dentro, fa un lavoro faticoso ma di straordinaria importanza».

Lei come ha cominciato? Quando e come è nata la scintilla per il giornalismo?

«È successo in concomitanza con la caduta delle Torri Gemelle. Fu un fatto per la mia generazione davvero epocale. Il desiderio di comprendere meglio quello che era accaduto mi spinse a leggere per la prima volta i giornali. Gli articoli di Oriana Fallaci e di Tiziano Terzani sul Corriere della Sera mi colpirono profondamente. Volevo scrivere come loro. Da allora ho sentito il desiderio di avvicinarmi a questo mondo».

Cosa vuol dire leggere i giornali?

«Vuol dire formarsi una propria opinione personale. Quando senti che un’opinione è tua, è una sensazione di rara bellezza e non ci rinunci più. È una grande conquista. Diventa una parte di te. Solo questo mestiere ti dà la possibilità di trasformare in un lavoro quella che è una grande ricerca di te stesso». 

Chiara Bosna
Agnese Pini Carrara, 1985. Giornalista, dal 2019 è direttrice de La Nazione. È la prima donna in 160 anni di storia del quotidiano a ricoprire questo incarico. Laureata in Lettere all’Università di Pisa nel 2007, frequenta la Scuola di giornalismo Tobagi. Dal 2006 inizia le sue collaborazioni con La Nazione, Il Giorno, ANSA, Mondadori, L’Espresso. Diversi i riconoscimenti che ha ottenuto. Nel 2021 entra a far parte delle cento italiane di successo di Forbes.

Agnese Pini sui giovani

Cosa determina il successo di un proprio progetto?

«Le delusioni. Quando arrivai a farmi una mia opinione sull’11 settembre, scrissi anch’io il mio pezzo e lo portai alla Nazione. L’articolo fu cestinato. Quando le cose vanno male vai comunque avanti, tenti un’altra strada se non funziona. È un fatto di carattere, non di talento. È questo che conta più di ogni altra cosa».

Quindi, bisogna inseguire i propri sogni anche a costo di sbattere contro dei muri, o ci sono casi in cui è giusto anche essere realisti?

«Non si può che sbattere contro dei muri. Non può andare sempre tutto bene. Bisogna essere ostinati. Quando sbatti contro un muro non devi mollare la presa, ma cambiare strada, trovare un’alternativa. C’è sempre un altro modo per arrivare all’obiettivo».

Lei ha cambiato tante volte strada?

«Se non l’avessi fatto non sarei arrivata da nessuna parte. Dopo il primo pezzo cestinato, sono tornata alla Nazione mentre mi stavo laureando. Nel frattempo, avevo fatto un corso di giornalismo. Iniziai a fare la collaboratrice, la stagista. Passarono due anni e non mi assumevano. Ho cambiato strada e ho fatto la scuola di giornalismo a Milano. Avevo voglia di lavorare e ho avuto la possibilità di lavorare al Giorno. A Milano sono stata 6 anni. Poi, con grande difficoltà, ho scelto di andare via e sono tornata alla Nazione a Siena».

Perché l’ha fatto?

«Pensavo di aver fallito, che fosse un momento difficile del mio percorso e invece, cambiare strada mi ha aperto un sacco di altre porte che mi hanno portato 3 anni dopo a fare la direttrice. Bisogna mettere in conto di restare delusi, frustrati, tristi. La cosa importante è non arrendersi, non ostinarsi a fare quella strada lì se non funziona, ma provarne un’altra».

Quali sono gli ostacoli che deve affrontare una donna nel mondo del lavoro? 

«La situazione delle donne in Italia è totalmente inadeguata all’essere un Paese moderno e civile. In Italia nel 2021 lavora il 49% delle donne, secondo dati ISTAT. L’Italia è uno dei Paesi più industrializzati ed evoluti al mondo e non lavora neppure una donna su due. C’è eccome un tema di diritti umani rispetto alla questione femminile. Le donne non ci sono in posizioni di autorità, ma non ci sono neanche nelle posizioni di base. Avere poche donne che lavorano vuol dire avere più donne vittime di violenze domestiche, esposte alla sudditanza di qualcuno che le mantiene, donne meno libere». 

Cosa ne pensa delle dichiarazioni di Elisabetta Franchi quando sostiene che sia meglio assumere donne over 40 che «hanno fatto tutti i giri di boa»?

«Non le trovo adeguate al contesto in cui si trova il nostro Paese rispetto alla questione femminile. Non dovremmo ragionare sui giri di boa, ma su come far entrare più donne nel mondo del lavoro». 

Cosa dovrebbe cambiare nella mentalità di questo Paese per ottenere la parità tra uomini e donne sul lavoro?

«Spesso si fa passare il messaggio che le donne debbano essere delle superdonne per fare qualcosa. Al potere non ci sono soltanto uomini eccellenti. Ce ne sono anche di mediocri. La parità la raggiungi quando ci saranno anche donne mediocri al potere. Bisogna dare alle donne l’opportunità di fare qualcosa, non chiedere loro di essere le più brave».

Secondo lei è vero che noi giovani siamo pigri e che non ci accontentiamo mai, che preferiamo il reddito di cittadinanza a un lavoro serio?

«Abbiamo tolto ai giovani la possibilità di fare un investimento a lungo termine sul loro futuro. Anch’io ho lavorato gratis, ma l’ho fatto perché avevo la sensazione che avrei potuto capitalizzare quel lavoro in qualcosa di più. Non mi avevano ucciso il sogno o la sensazione di potermi realizzare nella mia carriera. Non c’è più la convinzione di poter avere di meglio, di poter progredire nella scala sociale, di poter raggiungere il proprio obiettivo. Ed è colpa di chi è più adulto che ha tolto questo ideale ai giovani». 

Cosa conta di più in questa fase storica per un giovane? Il possesso di una casa, di una bella macchina o l’esperienza di fare un viaggio, di buttarsi in qualche progetto di volontariato, o altro…?

«Le cose che si possiedono sono destinate ad essere perse. L’esperienza non la perdi mai. Una volta che ce l’hai è tua. L’esperienza conta più di tutto il resto perché è il sentiero che ti porta alla realizzazione del tuo sogno. Basta percorrerlo».

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