«Chi sono io?» la domanda che attanaglia l’essere umano dai tempi antichi. La nostra identità è complessa e muta continuamente
«Conosci te stesso» («Gnōthi seautón»). Questa la scritta che campeggiava sul tempio del Dio Apollo a Delfi e che per secoli ha influenzato i più importanti pensatori della cultura occidentale. Socrate, Platone, Kant, Nietzsche (solo per citarne alcuni) hanno cercato di rispondere alla domanda che tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo posti: «Chi sono io?». Già negli scritti di Aristotele si trovano riflessioni sull’identità e l’alterità, due concetti che camminano a braccetto, perché «esiste un noi solo in virtù del fatto che esiste e riconosciamo un altro da noi».
Nell’antica Grecia l’uomo veniva definito per la prima volta animale sociale, proprio perché la sua identità è il prodotto del riconoscimento degli altri. Se volessimo partire, però, dall’etimologia latina del termine, identità deriva da idem (stessa cosa), ed è il principio che ci permette di riconoscere ciò che è «uguale a noi stessi» e ciò che «ci distingue dagli altri».
Secondo la psicoterapeuta Patrizia Mattioli «l’identità racchiude tutto ciò che siamo: dal nome alla data di nascita, dalle caratteristiche fisiche a quelle psicologiche e culturali. È il modo di ragionare, di affrontare i problemi, di comunicare. Sono gli interessi, le abilità, l’atteggiamento verso il mondo, i rapporti affettivi, i progetti per il futuro. Tutto questo ci rende unici agli occhi degli altri e identici a noi stessi, permettendoci di dire: “questo sono io”».
Due tipi di identità
La psicologia sociale individua due tipi di identità: quella oggettiva, ossia l’insieme delle peculiarità riconosciute dagli altri, come le caratteristiche fisiche, la condizione sociale e la personalità. Poi c’è l’identità soggettiva che è l’insieme delle caratteristiche che la persona riconosce in sé stesso e può essere positiva o negativa in base al livello di autostima.
È chiaro, quindi, come l’identità e la sua costruzione siano un aspetto fondamentale per l’essere umano e la psicologa Anna Oliverio Ferraris, nel libro La costruzione dell’identità spiega proprio come questa «ci permetta di definirci, di presentarci al mondo e riconoscerci».
Un senso di identità chiaro e stabile permette di reagire adeguatamente a cambiamenti come un matrimonio, la nascita di un figlio, un lutto, una vincita importante, che solitamente modificano l’immagine che si ha di sé. Un individuo, invece, con un senso di identità instabile, non è in grado di funzionare adeguatamente e perde il rapporto con la realtà. «È meglio avere un’identità negativa, che un’identità vaga», sottolinea la dottoressa Mattioli.
Sono tante le identità con le quali abbiamo a che fare: c’è l’identità di corpo, che riguarda le differenze anatomiche e biologiche, ma anche l’antropopoiesi, ossia la modifica del corpo per motivi culturali; c’è l’identità multipla, ossia lo studio dei ruoli che rivestiamo all’interno di contesti diversi; c’è lo studio dell’identità in positivo, che si concentra sulle caratteristiche del gruppo di appartenenza, o quella in negativo, che fa leva sugli aspetti non graditi degli altri; c’è poi l’identità virtuale e digitale, un spazio dove l’individuo può creare un nuovo sé; l’identità di genere, le identità fluide, quelle religiose, quelle nazionali, quelle culturali, etc.
Io sono…
Facciamo un gioco: prendete foglio e penna e scrivete «Io sono…» per 5 volte e poi prendetevi del tempo per proseguire le 5 frasi. Fatelo pensando di consegnare lo scritto al nuovo vicino di casa, che non avete mai visto.
Ora rifate l’esercizio, pensando di presentarvi a un colloquio di lavoro.
Poi riscrivetelo, immaginando di consegnarlo al vostro partner.
Adesso fate l’ultimo sforzo e pensate che a scrivere questo biglietto siate voi, 15 anni fa.
Rileggeteli. Probabilmente avrete cambiato parole, appartenenze, aggettivi, hobby e caratteristiche in ogni biglietto. Non preoccupatevi. Sappiate che gli studiosi sono tutti concordi sul fatto che l’identità sia un concetto mutevole. Nel tempo, nei contesti e nelle fasi di vita. È in continua trasformazione e si ridefinisce in base a quello che accade, a come lo percepiamo e alle persone che ci circondano.
L’identità, insomma, non è innata, ma è il risultato di un processo incessante che la forgia e la influenza. In altri termini: ciò che si è, si diventa. Il processo di costruzione di un’identità comincia alla nascita, si svolge prevalentemente nel rapporto con gli altri e prosegue per tutta la vita.
Per tutta la vita aggiungiamo, togliamo o modifichiamo qualità, tratti, interessi e capacità alla nostra identità. Proprio per questa sua natura mutevole, i cambiamenti della società influiscono notevolmente sulla costruzione dell’identità individuale. Nelle società tradizionali, come spiega la Oliviero Ferraris, i ruoli erano definiti alla nascita. «Chi nasceva nobile tale sarebbe rimasto. Chi nasceva contadino aveva scarse possibilità di dedicarsi ad altro. Uomini, donne, bambini e anziani avevano doveri, diritti e ruoli diversi. L’identità era un tratto stabile non soggetto a discussione».
Identità individuale
Con la modernità l’identità individuale ha cominciato a svincolarsi da quella del clan, della famiglia, della casta. Si è diffusa la convinzione che l’individuo potesse contribuire attivamente alla costruzione di sé. «Questa nuova libertà dell’uomo contemporaneo comporta una nuova responsabilità verso se stessi e la necessità di rivedere e rimodellare aspetti della propria identità». La società di oggi è una società complessa, difficile da decifrare, in cui predomina una molteplicità di modelli. Questo rende più ardua l’identificazione. Se da una parte, quindi, è positiva la riduzione dei condizionamenti di costume della tradizione, dall’altra la perdita di modelli definiti rende più difficile la costruzione di un’identità stabile. Per questo il sociologo polacco Zygmunt Bauman parla di problema identitario della società post-moderna.
Bauman presenta il concetto di desembedding (sradicamento), che non permette all’individuo di trovare il proprio posto in un mondo sempre più globalizzato, multiculturale, dinamico, imprevedibile, «liquido». Non sapendo bene dove collocarci rispetto all’altro (lo straniero, come il vicino di casa) diventa difficile adottare misure di comportamento adeguate alle situazioni e si finisce per cercare spasmodicamente qualcosa in cui riconoscersi.
Questo fenomeno viene accuratamente studiato dall’antropologo Francesco Remotti, autore del testo Ossessione identitaria, in cui spiega come «la ricerca insistente di un’identità sposta i sistemi sociali verso la chiusura, costruendo confini netti e invalicabili». Dire identità oggi, continua Remotti, «significa affermare la costituzione di un nucleo di valori che si configura come una barriera nei confronti degli altri». L’antropologo sottolinea anche come questo modello tutto occidentale, dove l’identità vive in una contrapposizione binaria tra noi e loro, crolla in una società multietnica, perché non sono più chiari i confini.
Identità con l’altro
Ci ricorda, però, come esistano anche altri paradigmi, oltre a quello dell’Occidente. In Africa, per esempio, la cultura è più aperta all’alterità. «Il caso più clamoroso d’identità vissuta come commistione è quello degli indios brasiliani Tupinamba, che praticavano il cannibalismo nei confronti dei prigionieri. Si nutrivano dell’altro, ma solo dopo che era stato inserito nella loro società». Senza dover ricorrere al cannibalismo, che lo studioso utilizza come esempio estremo di unione con l’altro, l’insegnamento da cogliere è quello di non vivere nel rifiuto dell’altro.
In una società così complessa, non bisogna cascare nel tranello di confondere la propria identità con l’identificazione ad un gruppo. In assenza di un’immagine di noi solida e delineata, il rischio è quello di prendere in prestito quella di altri e demandare al gruppo le responsabilità delle nostre azioni. Questo è il processo alla base delle guerre civili, degli scontri etnici, delle risse sul Lago di Garda. È quello che accade quando si decide di identificarsi solo come africani, o solo come stranieri, o solo cristiani, solo italiani, solo tifosi, solo donne, solo omosessuali, solo malati. Si innesca un circolo vizioso il cui obiettivo è la distruzione dell’altro, ma se la nostra identità vive in relazione agli altri, il loro annientamento diventa il nostro. Umberto Galimberti ci suggerisce, perciò, di non fossilizzarci sulle risposte «Io sono…», ma di incrementare le domande e non smettere mai di chiederci «Chi sono?». Solo così ogni nostro bigliettino avrà delle parole diverse. E solo così potremo davvero dire di conoscerci.