Teo Teocoli racconta le sue identità al Bullone: le mille vite sul palcoscenico e in TV
Gabriella Mancini è il mio primo contatto con la sala stampa del Festival di Sanremo. Era l’edizione del 2018, quella del nostro ritardo per la richiesta di accredito, quella seguita da sola per strada, guardando le serate dal Wi-Fi del McDonalds, quella della notte passata coi Lupi dopo la vittoria di Ermal Meta e Fabrizio Moro. Non la prima da giornalista, ma la prima con Il Bullone. Da allora, Gabriella è un infinito filo rosso. Quasi una madrina che ci osserva da lontano, che sorride e si compiace nel vedermi costante nel percorso da giornalista, e giornalista di spettacolo. Ci siamo finalmente riviste lo scorso gennaio, agli studi Rai a Milano. Eravamo lì per gli ascolti in anteprima dei brani di Sanremo. Non ci vedevamo dal vivo, da un bel po’. È stato bello non essere più un rettangolino su uno schermo. «Vi va di intervistare Teocoli? Stiamo lavorando a una cosa, lo sento spesso». Non si dice mai di no. Specialmente quando è un’intervista che a te non verrebbe in mente. La collaborazione di Teo Teocoli con Gabriella, firma storica della Gazzetta dello Sport, nasce dalla passione per il calcio.
Lei gli telefonava dopo le partite importanti per avere un parere, 30 righe tutte le settimane. Poi sul canale TV della Gazzetta parte «GazzaTeo», dove si sono ritrovati con i tanti personaggi da lui creati o imitati, a commentare il campionato. Adesso è uscito un libro, il secondo insieme, El Piede de Dios.
Il sottotitolo dice: la vera storia di Brigitte Lampion, calciatore e gentiluomo. È una storia vera? «Un po’». Che vuol dire un po’? «Ero giovanissimo quando Zampetti, che aveva 11 anni più di me, mi ha preso e mi ha detto: “Animale, ti porto in Spagna!”. Per come mi muovevo, per come facevo le cose… Sono stato prima a Cadaqués, poi a Ibiza, e lì ho lasciato il cuore. C’era ancora la dittatura di Franco, non aveva niente di quello che è adesso. Era ferma, surreale, un paradiso».
Sì, ma Brigitte Lampion? Esiste o no? Esiste come esistono Gianduia Vettorello, Felice Caccamo, Peo Pericoli, Abelardo Norchis… Di Felice Caccamo esiste una biografia ufficiale, e Vai, vai, vai, Teo ha la voce narrante di Galliani. Brigitte Lampion si muove in luoghi reali, incontra persone reali. Alla sua partita d’addio, a settant’anni, assistono persone reali. Quindi è la sua vera storia, a tutti gli effetti. Telefono al signor Teocoli, dandogli del lei per tutto il tempo, un venerdì mattina. Ho un sorriso da un orecchio all’altro, come quello che ha lui. Come quello che, senza saperlo, mi ha insegnato lui. Lui forse sorride meno, si è infortunato ed è fermo a casa per un po’.
Insegnare a ridere
Quando gli dico che sono ligure esclama: «Vettorello ha la casa a Savona! E si lamenta che c’è sempre qualcosa che ha franato, che si è allagato…». Gianduia Vettorello, uno dei suoi personaggi, il cronista torinese vestito parecchio all’antica, col caschetto da paggetto e il naso a punta, me lo ricordo a Mai Dire Gol.
E mi ricordo della casa a Savona, e di quanto ci facesse ridere, perché non diceva bugie: la Liguria non è terra facile, ed è piena di seconde case dei piemontesi che si lamentano sempre della manutenzione. Per assurdo, Teo non dice bugie nemmeno quando imita. Lo avete visto insieme a Celentano? Riconoscete l’originale? In un incontro allo Zelig di qualche anno fa, lui da solo faceva fatica a riconoscersi. E con che voce leggete «Vai, vai, vai, Paolino»? Ho sempre seguito poco il calcio, e di Maldini credo di aver conosciuto prima la sua versione che l’originale. Ma chi è quello vero? Di chi viene fuori la verità? Dell’imitato o dell’imitatore? La lista di imitati è immensa: Ray Charles, Bill Clinton, Ibrahimovic, Maurizio Costanzo, Galliani, Mancini, Tony Dallara, Gianni Agnelli, Giorgio Armani, Balotelli, Adriano Celentano, Armando Cossutta, Aurelio de Laurentis… E la carrellata di tormentoni ed espressioni ormai diventate parte del quotidiano di tutti, è incalcolabile. Le risate sono inevitabili. Anche le sue.
Quella risata a bocca aperta e lo splendente sorriso in vista. Quella risata esplosiva, folle. Quella risata irrefrenabile e senza pensieri delle domeniche di tanti anni fa, con papà che metteva l’asse da stiro in sala, e Quelli Che Il Calcio in tv. Mentre lui stirava le camicie per lavoro, e io controllavo i compiti per scuola, Teo era sempre lì. Con le sue mille facce, le sue mille vite. A insegnarmi a ridere. Sì, gliel’ho raccontato.
Non ho resistito, e ho anche rischiato di dargli del tu. Un collegamento che non avrei pensato è Hair, il primo musical che ho imparato a memoria, più o meno in contemporanea con Jesus Christ Superstar. Nel 1969, nel primo allestimento italiano al Teatro Sistina di Roma, Teo Teocoli faceva parte del cast. Insieme a Renato Zero e Loredana Bertè. Con l’adattamento dei testi di Giuseppe Patroni Griffi. «Siamo stati forse un po’ sprovveduti nel cinema. Non si sono create le occasioni di Tognazzi, per esempio. Lui e Vianello erano incredibili. Ma con la televisione abbiamo avuto la grande possibilità di sperimentare. Su Antenna 3, poi su Mediaset ci siamo divertiti come matti. Mai Dire Gol ha fatto scuola, come anche Quelli Che Il Calcio.
Erano contenitori come i varietà di una volta, ci si poteva fare di tutto e si sono trasformati in qualcosa di nuovo. Adesso vedo poca voglia di rischiare, pochi parlatori, non spiccano in molti». Quindi comico, scrittore, commentatore sportivo, animatore, ballerino, cantante, presentatore… Ma chi è Teo Teocoli? Intanto è Antonio, nato per caso a Taranto, ma calabrese di Reggio, arrivato a Milano a cinque anni (esattamente come il mio papà, un altro collegamento inaspettato), milanista nel midollo, appassionato di sport e di spettacolo. Canta, balla, recita, fa serate in un momento storico incredibile. Gaber, Jannacci, Celentano, Cochi e Renato, Boldi, Abatantuono, Renato Zero, Loredana Bertè… Questa è la compagnia dove nascono quelle mille vite. «Ero un talento naturale, forse anomalo e un po’ folle. La carriera è andata avanti ponderata e programmata, a volte, casuale, altre.»
Le carriere e le identità
È una delle poche volte che mi parla al singolare, se no è sempre un plurale maiestatis ad avere la meglio: «Quando facevamo le serate al Derby, e magari passavamo alle 3 del mattino, andavamo a dormire in un monolocale con Enzo, Renato e Cochi. E non si dormiva! Perché Enzo stava preparando gli esami di Medicina, passava la notte a borbottare, parlottare con le provette». Enzo è Enzo Jannacci, Renato e Cochi sono, ovviamente Pozzetto e Ponzoni. Jannacci poi, a Teo, scriverà una canzone, e lo dirigerà in uno spettacolo in Rai (a cui partecipa anche Massimo Boldi, con cui faranno coppia fissa per anni, lasciando tracce indelebili nella storia della nostra comicità).
Rideranno tanto, prendendosi in giro senza sosta: «Una volta Renato aveva mal di testa, e ha chiesto a Enzo qualcosa. Enzo gli ha fasciato tutta la testa, e serissimo lo ha convinto che fosse assolutamente necessario». Mi farei raccontare storie e aneddoti all’infinito.
Non sono riuscita a rispettare la scaletta delle domande. L’ultima riesco a fargliela, e forse, i mille dubbi sulla sua identità si sciolgono qui. «Il nostro simbolo, che dà anche il titolo al giornale, è un bullone, perché è qualcosa che tiene uniti con forza elementi anche molto diversi tra loro. Lei ha un oggetto a cui è legato?» Ci pensa un po’, anche per lui, come per tanti prima di lui, la domanda non è semplice.
«La bicicletta. Non ne ho mai avuta una. Quella che c’era in casa era di mamma, le serviva per andare a lavorare e non l’ho mai potuta usare. L’ho sempre voluta, ma non c’erano i soldi in casa. Mi è sempre rimasta in testa». Da giornalista, è bellissimo intervistare personaggi che non conosci e scoprirli da zero. Ma è impagabile quando succede di incontrare qualcuno che conosci, che hai seguito in TV da sempre, e ti rendi conto che di lui ancora non hai scoperto che un decimo della sua identità, che in realtà sono mille.