Professoressa all’Università di Harvard, è l’autrice del Capitalismo della sorveglianza primo atto d’accusa contro le grandi piattaforme hi-tech per l’uso indiscriminato dei nostri dati personali.
Boston. Pubblicare un post sui social; correre mentre si indossa uno smartwatch; parlare ad assistenti virtuali come Alexa; pagare con la carta di credito; fare una ricerca su Google; utilizzare Facebook; inviare una e-mail. Molto bello e veloce, ma questa nostra attività genera dati e lascia una traccia in Rete sulla nostra identità digitale, cioè le nostre informazioni personali, sanitarie, bancarie, finanziarie o fiscali, le nostre preferenze sessuali, i nostri gusti, cosa ci piace acquistare, vendere, amare, odiare.
È il giorno tristissimo in cui la Corte Suprema ha tolto a milioni di donne americane il diritto costituzionale di abortire, un passo indietro di 50 anni nella vita civile degli Stati Uniti.
È di diritti della persona che si discute durante un evento alla Boston University con la professoressa Soshana Zuboff, 70 anni, docente emerita presso la Business School dell’Università di Harvard. Zuboff è l’autrice dell’ormai classico Capitalismo della sorveglianza, un libro-inchiesta pubblicato nel 2018 che è stato il primo manifesto d’accusa contro i grandi monopolisti di Internet e dei social e la spinta di una campagna mondiale per recuperare la nostra privacy, fonte di libertà, da chi ci osserva attraverso innumerevoli canali e registra tutte le nostre attività.
Come armonizzare l’innovazione tecnologica che ci fa vivere una vita più comoda, offrendo comunicazioni migliori e servizi digitali utilissimi e la difesa della propria identità digitale, che viene poi venduta, scambiata, condivisa e analizzata da aziende con poteri immensi, senza sovranità, legittimate solo dal mercato ma non da precise regole della legge?
Professoressa Zuboff, negli ultimi mesi lei mi è sembrata più ottimista sulla protezione dell’identità digitale nel mondo e la regolazione degli affari delle grandi piattaforme tecnologiche.
«I governi autoritari, guidati da Cina e Russia, vedono come un fattore critico di sorveglianza politica l’accesso fisico ai data center per il controllo totale dell’identità digitale dei loro cittadini. L’Unione Europea invece, ha aperto una strada nuova approvando il GDPR (il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, ndr) che ha fatto entrare in vigore molte nuove regole su come le piattaforme e le aziende devono trattare i dati degli utenti. Questa decisione ha avuto conseguenze: Amazon Web Services ora consente ai clienti di controllare dove sono stati archiviati i dati in Europa; in Francia, Spagna e Germania, Google Cloud ha firmato accordi con fornitori di servizi tecnologici e di telecomunicazioni per far sì che siano aziende locali a gestire i dati prodotti sui servizi di Google».
Secondo lei si tratta ancora di casi limitati?
«Negli ultimi anni sono aumentati i Paesi dove è stata introdotta la tutela dell’identità digitale: siamo passati da 67 Paesi a 144 Paesi in cui è stata introdotta questa regolamentazione. Decine di governi hanno approvato o stanno approvando leggi e misure di gestione e controllo dei dati e dei contenuti online. Fa passi avanti l’idea che i dati generati da una persona appartengono alla persona, sono costitutivi della sua identità che ormai è digitale oltre che fisica, e devono essere immagazzinati all’interno del loro Paese d’origine, o almeno essere gestiti in conformità con gli standard di privacy e sicurezza stabiliti dal governo. L’Unione sta lavorando anche ad altri progetti di legge, come quello sull’intelligenza artificiale, che è la nuova frontiera di affari del capitalismo della sorveglianza».
Professoressa, manca ancora una legge federale di protezione dell’identità digitale negli Stati Uniti, dove stanno Google, Facebook e Twitter ed è più facile l’accesso ai dati delle agenzie di intelligence. Qui si teme una normativa che limiti la libertà di espressione dei cittadini e poi ci sono i problemi del trasferimento dei dati da Europa e Stati Uniti.
«L’ombrello della libertà di espressione è stato usato in maniera cinica, in particolare da Facebook e da Mark Zuckerberg per fini commerciali, di mercato, per fare profitti enormi. I loro algoritmi sono stati creati per aumentare il coinvolgimento delle persone, puntando sulla polarizzazione delle opinioni e su una dinamica perversa del confronto. Tutti sanno che nessuno legge fino in fondo le condizioni per cedere i dati quando clicchiamo e ci chiedono “accetta”. Queste piattaforme vanno richiamate alle regole nel nuovo mercato della verità: diritto alla privacy e sicurezza dei dati».
Le chiedo: che cos’è il nuovo mercato delle verità?
«L’opinione pubblica tradizionale, fatta da giornali e Tv, appartiene in gran parte al passato. Il nuovo mercato della verità è quello instaurato negli ultimi vent’anni dalle grandi piattaforme tecnologiche e dai loro algoritmi, utilizzando Internet e i social: la comunicazione non è più da uno a molti, ma da uno a uno e bisogna far stare gli utenti, la gente, più a lungo sulla propria piattaforma, con tutti i mezzi, per fare profitti, estrarre e rivendere i loro dati, per farsi dare pubblicità».
C’è chi dice che prima parlavano in pochi, gli autorizzati che stanno in alto nella scala del potere, ma è giusto che parlino anche i non autorizzati, i singoli cittadini, attraverso i social, altrimenti che democrazia è?
«Certo, ma l’algoritmo probabilistico delle piattaforme partendo dall’identità digitale degli utenti, basta la foto del profilo Facebook, crea connessioni sempre più stringenti tra uguali, costruendo tribù chiuse, impermeabili a opinioni plurali. Non si è trattato né di una conseguenza resa inevitabile dallo sviluppo della tecnologia digitale, né dell’unica espressione possibile del capitalismo dell’informazione. È stata la scelta di un gruppo di persone fuori da qualsiasi controllo regolatorio che ha creato grandi problemi alla discussione e partecipazione democratica di tutti i cittadini, inventando fake news e complotti: ricordiamoci cosa è successo intorno ai vaccini anti-Covid che hanno salvato l’umanità».
Professoressa, la tecnologia è neutra, senza essere buona né cattiva in sé, e riflette le aspettative economiche di chi investe per fare soldi, ma anche di chi la usa, noi utenti, e domanda connessione e comunicazione, soprattutto se sono offerte gratis.
«Apparentemente sono gratis. Il costo che paghiamo è mettere sul mercato la nostra identità digitale. Oggi attraverso una foto sul tuo cellulare, un algoritmo può riconoscere non solo dove ti trovi e come ti muovi, ma dalle tue espressioni, dalle tue reazioni può prevedere in qualche modo quello che farai. A quanti di noi ormai è capitato, dopo aver accennato a un oggetto durante una conversazione privata, di vedersi arrivare sul telefonino un’offerta proprio di quello stesso prodotto?».
Professoressa Zuboff, l’ultima domanda: come tenere insieme domanda di servizi, massimizzazione dei profitti e identità digitale della persona?
“La politica dei Paesi democratici non è solo specchio degli elettori, ma anche motore della libertà di un Paese. La parola chiave è libertà: la regolamentazione del commercio dei dati personali, la privacy, ci danno libertà, libertà di sbagliare e correggerci, di essere noi stessi senza aver paura che ogni nostra mossa sia registrata. La tutela dell’identità digitale, della privacy, sono diritti fondamentali a loro volta abilitatori di altri diritti, come la libertà d’espressione e di autodeterminazione».