Identità, mai una e indivisibile. Lo spiega Anna Oliverio Ferraris

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Anna Oliverio Ferraris illustrata da Chiara Bosna
Anna Oliverio Ferraris illustrata da Chiara Bosna

L’importanza di definire la propria identità individuale, lo spiega al Bullone Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta

di Francesca Bazzoni

Cosa definisce la mia identità? In passato non ci si poneva questa domanda perché la risposta era scontata, delineata da caratteristiche e posizioni che non lasciavano spazio ad interpretazioni o alla libertà di andare oltre le stesse, ma oggi, in un mondo che si sta liberando dai ruoli imposti dalla tradizione, dalla famiglia e dal contesto sociale, ci troviamo davanti a una nuova sfida, quella della ricerca e realizzazione della propria identità in maniera autentica, fuori dagli schemi.

Questo può portare spesso a scontrarsi con l’altro, con le definizioni che ci vengono cucite addosso dall’esterno e che sentiamo non appartenerci, ingabbiarci, o essere riduttive, mettendo così in crisi il nostro sentirci e stare nel mondo. Ne parliamo con Anna Oliverio Ferraris, psicologa, psicoterapeuta e professoressa ordinaria di Psicologia dello sviluppo all’Università della Sapienza di Roma, che ha da poco pubblicato il libro La costruzione dell’identità.

Perché è importante definire una propria identità? Quanto il mondo esterno ci condiziona nel farlo?

«Difficile non avere un’identità. Se noi non ci presentiamo al mondo fornendo un’immagine di noi stessi credibile, gli altri sono comunque indotti ad attribuirci un’identità che può essere positiva, negativa o del tutto indifferente, a seconda dell’impressione che facciamo loro, della relazione che ci lega o non ci lega a loro, della collocazione che ci attribuiscono nel sistema sociale».  

Oggi, rispetto al passato, si può costruire più liberamente la propria identità, questo può portare ad avere difficoltà nel riuscire a definirsi? Che cosa vuol dire, come ha scritto lei, che si fa fatica a realizzare la propria identità senza perdere sé stessi?

«Con la modernità l’identità individuale incominciò a svincolarsi da quella del clan, della famiglia, della casta. Godendo di maggiori libertà e di una più ampia mobilità sociale ci si convinse di poter costruire l’identità individuale sulla base delle proprie inclinazioni, talenti e caratteristiche psicofisiche. Questa maggiore libertà e autodeterminazione genera in alcuni la preoccupazione di non riuscire a dare il meglio di sé: si sentono colpevoli se non raggiungono determinati obiettivi. Ne può derivare un sentimento di insufficienza, l’impressione di un indebolimento dell’Io, con conseguente calo della stima di sé».

Qual è il rapporto tra l’identità di gruppo (della propria nazione, famiglia, religione, gruppo di lavoro) e l’identità individuale? Quanto la prima impatta sulla seconda?

«L’impatto varia da persona a persona. In alcuni può essere preponderante e molto forte. Prendiamo il caso di Saman, la ragazza pakistana scomparsa a diciotto anni con la connivenza dei genitori perché non voleva sottoporsi a un matrimonio combinato. In questa tragedia familiare le regole del clan hanno avuto la meglio sull’affetto filiale. Anche per gli ultrà del calcio, ad esempio, l’appartenenza al gruppo può generare una forza coesiva che ingloba l’identità individuale e la trasforma. Identità forti sono quelle religiose, familiari, politiche, nazionali. Per esempio, sappiamo che le guerre sono provocate da fattori economici, conflitti di potere, occupazione di territori, ma l’identità nazionale (o religiosa) viene spesso chiamata in causa e agisce come un collante tra individui che in essa si riconoscono, pur non conoscendosi tra loro». 

Siamo tutti poli-identitari: che cosa vuol dire?

«Vuol dire che abbiamo diverse appartenenze. Una persona, per esempio, può essere femmina, madre, figlia, insegnante, italiana, cattolica, ecc. Appartenenze che in molte persone si integrano serenamente tra loro e al proprio sé individuale, ma che in altre invece, non rispondono alle proprie aspirazioni o caratteristiche. Prendiamo il caso di un transgender a cui è stato attribuito un sesso alla nascita sulla base di determinati tratti fisici, ma che arrivato alla pubertà avverte una discrepanza tra la sua anatomia e l’orientamento dei suoi desideri e delle sue pulsioni sessuali. Un altro caso è quello delle donne a cui, per motivi politici o religiosi, non è consentito studiare o realizzarsi in un lavoro al di fuori delle mura domestiche».    

Parliamo di identità di genere, un tipo di identità che viene categorizzata in maniera «esclusiva», cioè ci si riconosce in una sola categoria. Esistono sempre più categorie di genere per permettere alle persone di identificarsi con una di esse. Abbiamo capito che due persone possono sentirsi parte dello stesso genere pur avendo caratteristiche molto differenti (sesso, orientamento sessuale); non rischiamo che le troppe categorie svuotino di significato le categorie stesse?

«All’interno di un’identità di genere si possono ravvisare molte differenze e inclinazioni individuali. Gli individui sono diversi tra loro sotto tanti aspetti, fisici e psicologici. L’intento di categorizzare tutte le differenze, per non incorrere in discriminazioni, può però alla fine portare a tracciare un quadro teorico un po’ artificioso in cui molti individui non si ritrovano».    

Anna Oliverio Ferraris Psicologa e psicoterapeuta, ha insegnato Psicologia dello sviluppo presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha diretto la rivista Psicologia contemporanea. È autrice di numerosi saggi scientifici e divulgativi.
Anna Oliverio Ferraris Psicologa e psicoterapeuta, ha insegnato Psicologia dello sviluppo presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha diretto la rivista Psicologia contemporanea. È autrice di numerosi saggi scientifici e divulgativi.

Identità e malattia. La malattia cambia il proprio corpo, la mente, e il modo in cui una persona si sente nel mondo. A volte si perde il lavoro e la vita sociale, e l’identità che sentivamo di avere sembra non calzarci più; ci sono aspetti immutabili della propria identità che non cambiano in relazione al mondo esterno?

«Nei momenti in cui siamo costretti a riposizionarci o a disconnetterci temporaneamente dal flusso della vita – per lutti, malattie o traumi – per poi “ricentrarci“, sono le memorie ad aiutarci a mantenere una continuità identitaria. Il rischio della perdita di sé e della depersonalizzazione è presente nei malati di Alzheimer o di demenza senile, in cui il deterioramento dei circuiti cerebrali, non consentendo più di collegare le memorie tra di loro, genera un senso di spaesamento angoscioso. Un analogo senso di spaesamento lo provano anche coloro che, vittime di incidenti con danni cerebrali, cercano di ricostruire le dinamiche dell’incidente e dei minuti che l’hanno preceduto». 

Sempre più forte è la tendenza a rifugiarsi in identità virtuali, dove si ha l’assoluta libertà di essere chi si vuole, quanto questo atteggiamento condiziona la reale identità di un individuo?

«Non sempre, ma può accadere che l’identità virtuale, per il suo impatto forte e coinvolgente sul piano emotivo, per le avventure che vive in rete, per i riscontri che riceve da altre identità virtuali, renda poi difficile o comunque lento il rientro nella realtà ordinaria. Lo spiega Daniela (12 anni) a pag. 145 del mio libro: “A volte, quando ho finito di giocare mi capita di non riconoscere la realtà e nel cielo, nell’aria, per terra, ovunque, continuo a vedere le immagini del videogame”. Le fa eco Silvano (11 anni): “Mi capita di sentirmi spesso come quel personaggio che si trova nel videogioco (calciatore, gladiatore), per me è una specie di carica che mi dà la forza”. Si tratta comunque nella maggior parte dei casi di un fenomeno transitorio».

Spesso le persone cambiano molto a seconda dell’interlocutore e del contesto che hanno davanti, diventando quasi dei camaleonti sociali, perché accade? Quanto conta la necessità di essere accettati dagli altri?

«Una società complessa e fluida come la nostra, dove spesso ci si trova a interpretare ruoli diversi in contesti differenti, favorisce l’utilizzo di maschere variabili a seconda del contesto e delle persone con cui si interagisce. L’individuo può mantenere un pieno controllo di queste diverse “voci” e utilizzarle in maniera diplomatica e utile senza danneggiare nessuno. Altre volte invece, può utilizzarle per ingannare o manipolare gli altri. Altre volte, infine, se assume posizioni molto divergenti o indossa maschere che palesemente si contraddicono, può non solo avere la sensazione disturbante di non essere sincero con sé stesso, ma corre anche il rischio di compromettere il nucleo centrale del proprio Sé, quella dimensione della psiche che fornisce unicità e fa sentire coerenti».  

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