Scrivere d’Amore è un rischio. Il «bene» c’è, cercalo

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Credits: Marc A Sporys
Credits: Marc A Sporys

di Benedetta Cappiello

«Amore» sentimento sognato, pensato, cantato, raccontato, idealizzato, rifiutato. E mai compreso.
Un solo amore nella vita o tanti? E se tanti, quanti? E per chi? E quale vale di più? Per sé stessi? Per la mamma? Per il papà? Per i fratelli? O per gli amici? O per quell’uomo che oggi hai scelto al tuo fianco, rinnovando l’«oggi» ogni giorno?
Amore della gioventù o amore maturo che ha capito come mutare nel tempo per declinare nei molteplici visi dell’amore?

Scrivere d’amore è intrinsecamente rischioso: ci sarà qualcuno che ne ha scritto meglio di te e qualcuno che sarà in disaccordo con la tua visione dell’amore.
Del resto, l’amore è un sentimento che si definisce con immagini: un gesto e una parola sono d’«amore»; un sorriso trasmette «amore»; le lacrime raccontano l’«amore». Ma l’Amore come tale non si definisce (e quanto sarebbe più facile se anche l’Amore avesse avuto il suo Einstein in grado di definirlo con un E=mC2).
Insomma, l’amore è amorfo e quindi libero di assumere le forme, i toni, i colori e la durata che vuole. Talvolta prendendosi pure gioco degli ignari amanti che si «pensavano per la vita» o «hanno iniziato per scherzo». E invece.

Scrivere del «mistero dell’amore» è semplicemente un disastro: mancano i punti di riferimento, partenza e arrivo svaniscono nel vuoto delle idee, prendendo forma solo con il «senno di poi».
Ed è proprio con quel senno, che vi racconto la storia di un’amica, che rende molto l’idea del «mistero dell’amore».

«Una vita spensierata, una vita in movimento, una vita di “sì, proviamo”, una vita di volti e incontri, una vita per crearsi un lavoro (che peraltro vuole cambiare), una vita con il tempo libero di affrontare gioie e dolori. Una vita che vuole continuare così, ma… arriva la sveglia a quell’età in cui – un mistero – una donna può sentire il desiderio di maternità. Magari non dell’oggi: un figlio, così mi racconta lei, non è un diritto, né tanto meno un dovere. Ma, chissà. E poi la biologia e tutte quelle amiche che fanno figli, così, talvolta per rispondere al comandamento del “è giusto così”, talaltra perché sono state più fortunate prima negli incontri. Delle due l’una. Optare per la vecchia scuola: trovare un Mr. X è proprio facile. Oppure, regaliamoci una chance in più. Ci ha pensato un po’, ha fatto tre false partenze…
E poi, non senza turbamenti, ha optato per la seconda via, decidendo di fare il prelievo di ovociti che rimangono lì, congelati da qualche parte. Potrebbero essere usati, o donati per la ricerca. Ha iniziato un percorso che i racconti dei medici o di chi l’ha già fatto, non bastano. È estremamente intimo, è una rivoluzione – momentanea – psicologica e fisica. Proprio così me la raccontava. A ogni puntura riemerge il pensiero della lei bambina: si aspettava qualcosa di diverso (e la Disney ci ha marciato un sacco!), ha sbagliato tutto e vorrebbe tornare indietro. E poi il dolore, di cui forse ci si vergogna a lamentarsi, perché il trattamento non è finalizzato a guarire da una malattia, ma ad alleviare un misterioso desiderio. Il costo dell’intera procedura (giustamente passata dal SSN per donne con patologie oncologiche e/o a rischio sterilità) potrebbe poi essere investito in altro.
Per non parlare, poi, del “giudizio sociale”; in fondo stava facendo qualcosa al di fuori della lista dei comandamenti che prescrivono le tappe da raggiungere – cortesemente – entro, e non oltre, una certa età. Un po’ come se, poi, la vita si dovesse ridurre a un fluire di prevedibilità. E invece, perché non continuare a pensare a una vita dove il caso diventa caso quando lo assumi causalmente nella tua vita? E arriva quel momento in cui i pensieri trovano pace: sorriso per le scelte e le rinunce del passato, forza per il dolore/disagio provato (in fondo davvero non è una malattia), profondo disinteresse per il “ma non s’ha da fare”. Rimaneva solo la paura del giorno del prelievo, in fondo è un’operazione a tutti gli effetti. E mentre me lo racconta, mi mostra una foto che si è scattata quella mattina: tutta di blu. Stava pure bene».

È una storia di mistero, anzi di due misteri.
L’amore per sé stessi che porta a fare delle scelte, anche sofferte, forse discutibili ma di gran benessere. E l’amore riposto semplicemente verso un’idea, un istinto, un desiderio oggi solo potenziale – perché qui non ci sono né madri né figli. L’amore per l’idea di diventare anche qualcosa di altro, ma non ad ogni «costo». Del resto, anche il fattore «papà» gioca un ruolo primario per cui bisogna saper attendere il tempo giusto.
Un «mistero di amori», insomma, che non ha un punto di partenza ma ne ha uno di arrivo. La storia della mia amica è infatti a lieto fine – non è scontato – ed è valsa la pena raccontarla, perché racconta qualcosa di diverso, qualcosa di più.

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