Identità e professione. Il lavoro decide chi siamo

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Illustrazione di Giorgio Maria Romanelli
Illustrazione di Giorgio Maria Romanelli

Conoscere la professione è conoscere chi ho davanti non solo attraverso la sua storia, ma anche attraverso ciò che sa fare e fa

«Ciao, come ti chiami?», «Fabio»… «e che lavoro fai?»… Quando conosciamo qualcuno e vogliamo farci un’idea di quella persona, in genere le domande che snoccioliamo sono almeno queste.

Magari in mezzo ci mettiamo qualche altra domanda. L’età possiamo intuirla con lo sguardo; dal modo di parlare potremmo anche capire da dove viene; però, se vogliamo davvero scoprire la persona che abbiamo di fronte, per il nome e il lavoro non c’è intuito. Il nome, il mio nome, è importante, non tanto perché «coso mi ha detto» è proprio brutto da sentire, ma perché il nome, sono io. Nel mio nome c’è la mia storia, bella o brutta che sia, c’è il mio volto, la mia identità personale. Anche se cambiassi sesso, quello che sceglierei sarebbe comunque il mio nome; se anche lavorassi sotto copertura, quello sarebbe comunque il mio nome e non un altro. Al mio nome mi aggrappo, come quella certezza inequivocabile che mi identifica.

Eppure, non basta. Per conoscere una persona bramiamo di sapere anche qual è la sua professione, o almeno se studia; ma se non fa né l’uno né l’altro, non capiamo, perché non riusciamo a comporre il ritratto della persona che abbiamo di fronte: è come se volessimo disegnarne il volto, senza sapere come sono fatti il suo naso e la sua bocca. Per fortuna abbiamo coniato una professione, NEET, coloro che né studiano né lavorano… e così abbiamo il cuore in pace, forse.

Conoscere la professione è conoscere chi ho davanti non solo attraverso la sua storia, ma anche attraverso ciò che sa fare e fa. Saltando qualche passaggio argomentativo, con buona pace di ogni filosofia, psicologia e sociologia, potrei dire che il mio nome definisce che sono io; la mia professione, invece, quel che faccio io: insieme, dipingono chi sono io. È tutto? Fosse così semplice, se cioè bastasse farsi riconoscersi dagli altri attraverso un nome e una professione, il mondo sarebbe pieno di cantastorie, astronauti e ciabattini.

Illustrazione di Giorgio Maria Romanelli
Illustrazione di Giorgio Maria Romanelli

Cosa succede quando ho bisogno non solo di essere riconosciuto, ma di riconoscermi? Di sapere che quello che faccio ogni giorno davvero sono io e non un altro? Vi è mai capitato di domandarvi mentre lavorate: «ma che ci sto a fare qua? Questo non sono io! Questo non è il mio posto!». A me è capitato. Certo, ogni esperienza fa esperienza, tutto serve. Ma quando ci si trova in mezzo a qualcosa che non ci corrisponde, è come se si creasse una spaccatura dentro di noi, un canyon dove da un lato ci sono io e dall’altro quel che faccio io.

Quando mi è capitato di sentire questa separazione, è stato come provare un lutto verso me stesso. Un lutto nel senso che il dolore della separazione del mio io da sé blocca, atterrisce. Ho provato a chiedermene le ragioni, indagare l’identità, il cosa e il come. Fino poi scoprire che l’unico modo era starci dentro, imparando quello che potevo e anche qualcosa di più. È qui che comincia un cammino, un percorso del riconoscimento alla spasmodica ricerca di un ponte che unisca i due lati del canyon… oppure di un’origine: la speranza di individuare quel punto in cui i due versanti del canyon sono in realtà la stessa montagna, solo osservata da punti di vista differenti. Cammini diversi, eppure così simili, opposti, ma presenti, lontani, eppure visibili. La nostra identità non è che un caleidoscopio di esperienze, che, se stiamo solo ad osservarle, non prenderanno mai vita e resteranno per sempre due versanti lontani del canyon.

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