Il ricordo Angelo Chessa: medico dopo la Moby Prince

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Angelo Chessa con i B.Liver
Angelo Chessa con i B.Liver

Dottor Angelo Chessa, figlio del Comandante della Moby Prince morto -insime alla moglie- nella tragedia, viene ricordato da un’amica

di Cinzia Farina 

Il «gigante» (per via della sua altezza) dal cuore buono, questo era il dottor Angelo Chessa, chirurgo ortopedico dell’ospedale San Paolo di Milano. Ho conosciuto Angelo tanti anni fa quando mio figlio giocava a basket, sport che li accumunava; lui era un bravissimo giocatore, e da lì siamo diventati buoni amici.

La gentilezza della sua anima pulita, schiva e riservata in un mondo dove tutti vogliono apparire, colpiva quelli che avevano la fortuna di incontrarlo sul loro cammino. Certe vite si trovano a dover cambiare nello spazio di un istante… come è successo ad Angelo quando aveva solo 25 anni. La sera del 10 aprile 1991, nel porto di Livorno, un traghetto della Moby Prince entrò in collisione con l’Agip Abruzzo, petroliera della Snam, a 2,7 miglia dalla costa. Morirono centoquaranta persone, tra queste il padre di Angelo, bravissimo Comandante della Moby Prince e la madre, salita sul traghetto all’ultimo momento.

È stata la più grande tragedia della marineria italiana, con tanti misteri sul colpevole e sulle vere cause. Angelo non ha mai mollato e insieme al fratello, hanno riunito i familiari delle altre vittime, per dare voce alla giustizia, e cercare quella verità molto scomoda per qualcuno. Era orgoglioso degli ultimi sviluppi dell’inchiesta del Senato, che nel 2018 stabilì l’inesistenza della nebbia temporanea, che secondo i magistrati aveva ingannato il comandante.

La controinchiesta sulla Moby Prince

La controinchiesta, condotta da Angelo, puntò a mettere in risalto i gravi ritardi della Capitaneria di porto e gli stranissimi mancati soccorsi dopo il «mayday». Un vero guerriero Angelo Chessa, che in questi anni ha continuato a combattere con testardaggine la battaglia per la verità a cui è legato l’onore degli uomini, nonostante fosse già colpito dal male che ce lo ha portato via.

Nel febbraio del 2018 è venuto al Bullone a raccontare questa vicenda. Sapendo che era una persona molto riservata, il giorno prima gli avevo chiesto se avrebbe parlato della sua malattia ai ragazzi, come esempio. Le sue parole scandite sempre dalla sincerità mi risuonano ancora nella mente: «Cinzia, non so… dipende da come mi troverò». Mi ha commosso quando alla fine dell’intervista ha detto loro di non mollare mai, che la vita è un dono, e che ogni giorno che gli viene regalato, è un giorno in più per fare il lavoro che gli piace e stare con i suoi familiari.

Angelo Chessa ricordato dall’amica

Non l’ho mai sentito lamentarsi per i dolori o le cure a cui si sottoponeva, era sempre gentile con tutti, anzi, rettifico, come diceva lui da vero sardo: «Sono così soprattutto con le persone autentiche, che non hanno bisogno di elencare titoli per sentirsi qualcuno». Angelo non amava la mondanità, quando accettava inviti, o veniva a cena da noi, era un regalo. Riceveva spesso fuori orario persone che avevano bisogno di un consulto medico, senza chiedere nulla in cambio. Al suo funerale, lunedì 13 giugno, c’era una grandissima folla: medici, amici, pazienti, persino commercianti dove andava a fare la spesa, uniti da un comune sentire: «Angelo il guerriero gentile e sorridente, impegnato nelle sue due grandi battaglie, la ricerca della verità sulla Moby Prince e la malattia». Una sua amica ha raccontato che negli ultimi giorni era sereno, perché nonostante la diagnosi, era riuscito a passare più anni del previsto con i suoi figli. Sempre educato, mai sopra le righe e con la dignità che lo contraddistingueva, quel lunedì, riuniti per l’ultimo saluto, avrebbe detto a tutti: «Non vi voglio vedere piangere. Sono tornato nella mia Sardegna a bere del buon mirto».

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