Un pensiero sulla scuola per gli studenti che verranno

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Un Preside di una scuola, con un’etica pedagogica forte e capace di muovere montagne, viene sgridato perché dovrebbe limitarsi a fare il manager, tutelandosi. In questo caso, a totale discapito del benessere degli studenti.

di Giovanna Fungi

Un Preside, con un’etica pedagogica forte e capace di muovere montagne, viene sgridato perché dovrebbe limitarsi a fare il manager, tutelandosi. In questo caso, a totale discapito del benessere degli studenti. Il mio anno scolastico è iniziato con questo racconto; con il balletto triste delle nomine che lasciano orfani gli studenti, disorientati i docenti e gli altri adulti. Si comincia da meno mille.

Mi sono chiesta, «Ce la faccio?», e ho scritto un inutile post su facebook: «Che dire… studenti, docenti mettetecela tutta, per amarvi meglio». Il mio pensiero si sintetizza così. Per chiederci quali cambiamenti siano necessari alla scuola dobbiamo partire da un esame di realtà, e anche di coscienza. Perché se no il destino della scuola, e di tutti quanti hanno la possibilità di passarci attraverso, è quello di annegare nella dissociazione. Spoiler alert: più domande che risposte. Se la risposta di chi ha il potere è che una scuola al passo coi tempi è una scuola tecnologica, serve necessariamente ripartire dalle domande.

Prima di stendere un’idea di riforma chiediamoci: che cosa rappresenta la scuola? Cosa viene chiesto alla scuola da parte della società? Esiste una qualche forma di coerenza tra ciò che ci aspettiamo e ciò che viene realmente dato alla scuola per essere nelle condizioni di soddisfare le nostre aspettative? Esiste una qualche forma di coerenza tra le possibilità di una crescita armoniosa; di sviluppare amore per l’apprendimento, e le richieste dominanti e coriacee del mondo contemporaneo?

Un cambiamento nella scuola non può essere pensato senza considerare le priorità scelte a livello più ampio nel disegnare una società. Se la società dice: compra, vendi, manipola, temi il fallimento; usa tutto il tuo tempo per lavorare se no la tua vita non varrà niente, fai tutto questo per avere vestiti, yacht, case immense; per essere meglio degli altri e dimostrarlo con un video di quindici secondi su Tik Tok; come può la scuola dire che errare è umano e che dall’errore si apprende? Metti via il cellulare; non desiderare il successo facile dei social; tratta gli altri con rispetto; mantieni un livello di competizione «sano»; abbi cura della tua salute, non sclerare? E invece bisogna dirlo, ma il contesto rema potentemente contro.

Se i genitori vedono i figli pochissimo tempo e quando sono stravolti; hanno ferite che non sanno come guarire; una casa da far andare avanti, è difficile per loro sedersi tranquilli a far fare i compiti, però glielo si chiede e li si giudica pesantemente quando non lo fanno. Gli insegnanti fanno questo lavoro senza preparazione; senza coscienza etica e senza passione. Nella migliore delle ipotesi in burnout perché la passione in certi contesti ti brucia. È difficile trasmettere passione a 25 corpi e menti che ne hanno bisogno. Se la società che crea sofferenza in questi e altri modi mette a disposizione innumerevoli prodotti per anestetizzare il dolore, non possiamo pretendere dalle persone che non sviluppino comportamenti a rischio e dipendenze. Se succede le giudichiamo, le mettiamo alla gogna, le puniamo. Burnout, depressione, dipendenze, malattie sono viste chiaramente come costi sociali altissimi.

Il cambiamento che serve nella scuola non può certamente perdersi in questo mare magnum e deve trovare un punto di partenza. Io dico che è l’amore. Disegnare una scuola come un luogo sicuro per studenti, genitori, insegnanti, dirigenti. Formulare un’aspettativa chiara e sostenibile. Avere il coraggio di lasciare andare programmi obsoleti e la cultura della colpa e della punizione. Tutelare cocciutamente l’immenso valore del tempo e dell’ascolto. Lasciar perdere i progetti che sfiancano oltre il possibile le risorse di tutti. Meno, meglio. Prendere una posizione eticamente chiara e forte, per non lasciarla neanche in nome di una sovvenzione. Conoscere, capire i meccanismi del funzionamento umano e dell’apprendimento, prima dei saperi altri.

Prendere come regola che non c’è apprendimento duraturo se non c’è il piacere, avere orrore dell’insegnamento che si basa sulla vergogna e sulla paura. Rompere gli attuali schemi mascherati da innovazione che hanno tutto il sapore di un immenso sforzo destinato a ripiombare nell’impotenza appresa. Ancora e ancora.

L’anno scorso ho assistito a una lezione in una scuola differente. Mattinata di tre ore con gli adolescenti; non gli insegnanti ad alternarsi per periodi di 45-50 minuti, ma facilitatori dell’apprendimento con una solida e continua formazione; una specializzazione in aree umanistiche, linguistiche o scientifico-matematiche. Apprendimento stimolato con quesiti e giochi. Momenti di meditazione, journaling, approfondimenti, nel pomeriggio lavori di gruppo basati su progetti scelti dai ragazzi; un costante mentoring che prende in considerazione l’allievo come persona. 

Il tempo. L’incontro. La fiducia. La competenza sulle scienze dell’apprendimento. Il riconoscimento delle caratteristiche di una fascia d’età specifica. La consapevolezza del proprio impatto a partire dalla relazione. Se la politica può fare qualcosa, è chiarirsi le idee rispetto a cosa sia la scuola «al passo con i tempi»; cosa sia la scuola che non produce sofferenza; accorgersi di ciò che non funziona; chiedere cose fattibili o renderle tali; alleggerire i processi e sostenere gli adulti come condizione per sostenere i bambini; vedere oltre l’illusione che mettere un cerotto o una coccarda sia abbastanza. 

Il mio programma partirebbe dunque dall’amore; dalla warm cognition; dalla responsabilità etica di tutti gli adulti. Si occuperebbe di lavorare nella direzione tracciata da Lucangeli quando dice: «Nella scuola che vorrei gli insegnanti puntano a ridurre gli stati di paura incoraggiando le emozioni che nutrono l’apprendimento, che stimolano l’interesse, la curiosità, il senso di completezza di sé, la percezione di affrontare una sfida commisurata alle proprie possibilità». Da qualche parte bisognerà partire. Partiamo, oggi, da qui.

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