Una chiacchierata con Ilaria Ciancaleoni Bartoli, fondatrice dell’Osservatorio Malattie Rare, la giornalista Ilaria Vacca, caporedattore di Omar, e l’avvocato Valentina Lemma, responsabile dello sportello legale dell’Osservatorio.
di Federica Margherita Corpina
Come nasce l’Osservatorio Malattie Rare? E qual è stato, tra i fattori che hanno reso inderogabile la sua fondazione, quello più determinante?
Ilaria Vacca: «L’Osservatorio Malattie Rare nasce nel 2010, quando di malattie rare si parlava ancora poco e male. E nasce, in virtù di questa evidente carenza, sia come agenzia stampa che come testata giornalistica, con l’obiettivo di colmare un vuoto di informazione concernente non solo pazienti, famiglie, e medici, ma anche giornalisti di settore».
Ilaria Ciancaleoni Bartoli: «È nato quasi per caso, quando una collaborazione con due associazioni che si occupavano di malati rari mi fece incontrare la SLA. L’impatto fu forte, tanto che le risonanze mi portarono a iniziare a studiare, e a scrivere il mio portale. Di lì a breve si unì a me anche Ilaria Vacca, che fino ad allora aveva lavorato nell’ambito della disabilità. E successivamente, con l’arrivo di Valentina Lemma e Roberta Venturi, il discorso si estese anche agli aspetti legali».
Valentina Lemma: «Lo sportello legale, in particolare, si occupa di assistere chi si rivolge all’Osservatorio chiedendo chiarezza su temi come i diritti dei malati rari, l’invalidità civile, la legge 104, e di aggiornare i lettori di Omar curando approfondimenti specifici su queste tematiche e simili».
I.V.: «Quello che davvero fa la differenza nel produrre contenuti accessibili a tutti, è la nostra sinergia giornalistico-legale, che ci ha permesso di sposare, e con successo, l’idea del giornalismo di servizio: anche i problemi giuridici sono problemi reali, e riguardano, pure in quest’ambito, persone vere».
Oggi siamo nel 2022. Come «guarire» la grave assenza delle Malattie Rare nei programmi elettorali delle ultime votazioni?
I. C. B.: «La grande assente, in realtà, è un po’ la Sanità in generale, che figura, nei programmi elettorali nazionali solo marginalmente. Molto presente è invece nelle campagne elettorali delle regionali, dove sono in ballo fondi importanti, essendo il funzionamento stesso della Sanità organizzato per regioni. Per le Malattie Rare, poi, il discorso è amplificato: a livello nazionale, dal momento che i numeri sono pochi, la questione non ha grande rilevanza a fini elettorali o di programmazione dello Stato. Ma le cose non stanno esattamente così: sono rare le malattie, non i pazienti che ne soffrono, e i numeri non sono poi così bassi. Bisogna che se ne parli di più, e senza pietismi, per rendere chiaro ai politici che sì, possono fare qualcosa. Ma difficilmente le istituzioni prendono iniziativa, se non si arriva da loro, oltre che con la narrazione del problema, con delle proposte per risolverlo».
Malattie rare e lavoro
Come risponde, il nostro Paese, alle difficoltà che molti ragazzi affetti da malattie rare incontrano nell’approcciarsi al mondo del lavoro (difficoltà ad accedervi, compensi inadeguati, sostegni economici insufficienti per chi un lavoro non può averlo)?
I. C. B.: «Il problema è culturale: non lavora chi è ed è stato sempre circondato da persone che fin dalla nascita non lo hanno ritenuto in grado di farlo (incluso il sistema scolastico). Con gli strumenti informatici di oggi, infatti, ad esclusione di poche eccezioni, ci sarebbero lavori davvero per tutti: c’è solo da trovare quello che meglio risponde ai limiti e alle potenzialità di ciascuno».
V. L.: «Il lavoro non è culturalmente percepito come una necessità per il disabile, e il fatto che la normativa sui lavoratori disabili risalga al 1999 non fa che dimostrarlo».
I. V.: «Abilismo o assistenzialismo? Di questo si tratta. È ora di cambiare la cultura, a partire dalle piccole cose. Tante persone la cambiano con la propria vita, insegnando a chi sta loro accanto che l’unica cosa che li rende diversi è il tipo di ostacoli che affrontano. Fornire gli strumenti compensativi adatti a superare quegli ostacoli: è questa la chiave».
I. C. B.: «La disabilità, d’altronde, è un concetto abbastanza relativo: è più abile un cieco al buio, rispetto a chi ci vede bene. Si tratta, insomma, di adeguare il sistema, e di entrare nell’ottica che anche il disabile può fare una cosa normale. Senza sfociare nell’eccesso opposto: non bisogna essere speciali per forza».
Parlando di cultura… Se negli ultimi anni si è cercato di includere, nelle produzioni televisive e cinematografiche, categorie poco o meno rappresentate, le malattie rare sono rimaste un po’ nell’ombra anche sugli schermi: crede che una maggiore rappresentazione di questo tipo possa contribuire alla sensibilizzazione della popolazione che non sente il bisogno di informarsi attivamente e autonomamente a riguardo?
I. C. B.: «Qualcosa negli ultimi anni si è fatto: Blanca e Doc ne sono due esempi. Trattandosi di fiction, però, non ci si può non aspettare una narrazione romanzata della malattia. Pazienti e associazioni hanno per questo protestato. In fin dei conti, però, non se ne è parlato in maniera così sbagliata, considerato il target, ed è comunque meglio che non parlarne affatto. Servono entrambe le cose: che se ne parli in maniera non pietistica, anche se poco accurata in una serie come Doc, e che se ne discuta in termini più scientifici in altri momenti di informazione».
I. V.: «Interessante sarebbe pure portare sugli schermi lo sport di un certo tipo. Le Paralimpiadi, ad esempio, sono un fenomeno mediatico notevole, e non vanno dimenticate nemmeno altre nicchie di comunicazione come le rassegne cinematografiche e teatrali».
Disabilità e fiction
Se è passabile che una fiction televisiva manchi di una certa accuratezza, non è altrettanto tollerabile che negli ambienti in cui dovrebbe essere indispensabile una conoscenza approfondita e sensibile di queste patologie (nei contesti adibiti alla valutazione della disabilità, per fare un esempio), spesso si incontrino soltanto vuoti di buon senso, competenza e umanità: come colmarli?
V. L.: «Il problema fondamentale sta spesso nella competenza di chi valuta: manca il medico specialista per quella determinata patologia. Tutto avviene in sede di visita, e non tutti possono permettersi di farsi accompagnare da uno specialista pagato di tasca propria».
I. V.: «Le commissioni INPS, insomma, sono un po’ come la vita reale: quello che ti capita ti capita. Per questo ci impegniamo a creare della documentazione che possa accompagnare i pazienti ad arrivare preparati e consapevoli di fronte a una commissione di valutazione, e del materiale scientifico, informativo e sintetico, indirizzato alle commissioni INPS, così che qualunque medico possa leggere e capire».
In che condizioni versa, attualmente, la ricerca, nel campo delle malattie rare? Sono garantiti finanziamenti adeguati?
I. C. B.: «Per quanto riguarda la ricerca di base, quella che si svolge nei laboratori e nelle università, i finanziamenti non sono tantissimi, e sono dati male: vengono ripartiti a pioggia, cercando di accontentare tutte le regioni, senza un organismo che controlli che non si finanzino ricerche simili, sprecando così risorse. Inoltre, tanti bravi ricercatori “fuggono” all’estero. Serve riorganizzare meglio il sistema, e, solo dopo averlo riorganizzato, finanziarlo di più. Quanto invece alla ricerca clinica, c’è un problema di leggi, e di tempi (che è poi sinonimo di costi). Il tempo è un fattore cruciale quando i fondi sono privati, e quando attendere che la sperimentazione svolta all’estero si concluda, ora che il farmaco arrivi in Italia, può rivelarsi anche fatale per certi pazienti. Le normative, in questo caso, ci sono, ma vanno applicate».