di Federica Margherita Corpina
Non mi è capitato spesso che mi chiedessero di raccontarmi. E le poche volte in cui l’ho fatto, non ho mai messo la firma alla fine di certe pagine. Come a voler nascondere che fosse tutta mia la vita che avevo sotto il pugno, comprese le parti meno leggibili. Iniziano alla fine del 2015 i fogli più anneriti, sporchi un po’ di sangue e un po’ di vergogna. La diagnosi ad aprile dell’anno successivo, dopo mesi fuori casa per un programma di studio all’estero. Era il quarto liceo, ed era rettocolite ulcerosa. Del gruppo delle MICI, per capirci: Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali. E pensare che ho sempre amato i gatti…
La mesalazina funziona, supposte e compresse tengono a bada i sintomi, prevenendo possibili riacutizzazioni. Pochi gli accorgimenti: evitare certi alimenti – tè, caffè, piccante e via dicendo – e prepararsi psicologicamente a ripetere periodicamente (e a vita) la colonscopia. Tuttavia, perché il mio sistema immunitario avesse deciso di prendersela in maniera tanto accanita con le pareti del mio retto, nessuno poteva spiegarmelo. Io, però, a giudicare da quanto accaduto nei mesi a seguire, una mezza idea me la sono fatta.
Finisce la scuola, arriva l’estate, la prova costume… No, fermiamoci un attimo: non era per quella che mi ero fissata di dover dimagrire. E, ammettiamolo, dover evitare certi alimenti, tra cui dolci e fritti per via della RCU, era una bella e comoda scusa. Allora non me ne rendevo conto, ma il cibo si stava gradualmente trasformando nel mio peggior nemico. Anzi, mi correggo, il cibo stava diventando l’arma che avrei presto impugnato, privandomene, per accanirmi contro il mio peggior nemico: me stessa. A questo punto dovrebbe tornare qualcosa anche a voi.
Quando, a settembre del 2016 il ciclo mestruale sparì, la trasformazione si era già conclusa. Io però, continuavo a non vedere quale fosse il problema, né riuscivo a spiegarmi perché mia madre mi costringesse a salire nuda sulla bilancia, per poi piangere alla vista di un numero sempre più basso rispetto alla pesata precedente. Speravo che accontentarla, e iniziare a frequentare un Centro Disturbi Alimentari della zona, avrebbe in qualche modo attutito le nostre urla. E invece le attutì soltanto la distanza, nel senso che alle grida al telefono, dopo il mio trasferimento a Roma per l’università, potevo abbassare il volume. Ma non potevo abbassare il dolore.
La permanenza in una residenza di merito per sole ragazze e qualche episodio di bullismo in aula, di certo non sono stati di grande aiuto. Inizialmente, a dire il vero, non lo erano nemmeno i day hospital all’Umberto I, la terapia di gruppo, i colloqui individuali, le pesate la mattina, i pranzi in ospedale. Quantomeno finché quella svogliata routine non mi aprì finalmente gli occhi al problema (un altro), dandogli un nome: anoressia nervosa. Mangiare meno o non mangiare affatto erano diventati modi di comunicare, espressioni sintomatiche di un disturbo per certi versi paradossale: volevo sparire, sì, ma mentre il mio corpo lo gridava al mondo.
Riprendere peso mi spaventava, così come continuava a spaventarmi il cibo, il contatto con le persone, tornare a casa per Natale, un abbraccio di mamma. La odiavo. O meglio, il disturbo mi aveva convinta che anche lei fosse mia nemica, essendo la sua più incaponita avversaria. Mi serviva una scossa, ma una bella forte. Non una fetta di pane in più a colazione o un libriccino sul valore della vita. Qualcosa tipo sei mesi di Erasmus in Spagna, nella seconda metà del secondo anno di università. A condizione, ovviamente, che lo psichiatra al quale ero stata assegnata al dipartimento DCA del policlinico di Roma continuasse a seguirmi privatamente su Skype. Nessuna obiezione: ero arrivata a un grado di consapevolezza sufficiente da rendermi conto che ne avevo bisogno. E poi con lui mi trovavo bene.
Eccola, la libertà: nessuno, in quella stanzetta di Madrid avrebbe potuto controllare se e quanto mangiavo. Per la prima volta ero davvero l’unica responsabile di me stessa: potevo lasciarmi morire, o potevo aver cura di me. Mi orientai per una terza opzione: la rivoluzione. Sì, furono sei mesi di rivoluzione, mi avvicinai gradualmente al mondo dell’alimentazione vegana, fino ad abbracciarla, e fu quella, con mia (e non solo mia) grande sorpresa, la prima chiave di svolta. Comunicarlo a casa non sarebbe stato facile, e difatti non lo fu: mia madre era convinta che fosse una trovata per travestire il disturbo, un po’come a carnevale. Avrei dovuto riprendere peso, per dimostrarle che non aveva ragione.
Ricordo ancora le parole spese dal mio psicoterapeuta a riguardo: «Non trasformare il tuo corpo in una merce di scambio». Cominciai effettivamente a riprendere peso, piano piano, una volta a casa, ma non per smentire mia madre, piuttosto per non rimanere incastrata in un processo per ipocrisia davanti al tribunale della mia coscienza. Come potevo io spiegare la mia scelta con l’amore per la vita degli animali e per l’ambiente, con la volontà di causare, con la mia esistenza, il minor grado di sofferenza possibile, se poi la prima vita a cui infliggevo dolore era la mia?
No, non ho imparato da un giorno all’altro ad amarmi, né ho accettato senza ripercussioni i cambiamenti del mio corpo. Neanche lui ne è uscito indenne, e, nonostante il raggiungimento del normopeso, dopo più di quattro anni e mezzo di amenorrea, sono stata costretta a prendere la pillola, per scongiurare danni peggiori. Non credo, però, che sia stata tutta una sofferenza inutile: la mia amica più preziosa l’ho conosciuta in day hospital cinque anni fa, ho un rapporto con mia madre e mia sorella che è maturato anche grazie alla malattia, per non parlare del guadagno in consapevolezza e sensibilità, entrambe preziose per evitare di infierire involontariamente sulle fragilità altrui, ed operare più o meno facilmente un filtro sulla realtà, così da non rimanere troppo ferita da ciò che con tanta leggerezza generalmente si dice o si fa, noncuranti delle conseguenze. Le perdite ci sono state, alcune forse irrimediabili, ma la terapia, tutt’ora, serve anche a questo: a vivere pur volendo morire, letterale o meno che sia.
Oggi sono qui, a scrivere di me mettendoci la firma, con una relazione che compie quasi un anno (dopo anni di rifiuto ad essere donna), qualche abbondante crisi di pianto, una pallina in testa ancora senza nome, e tanta paura della vita. E del buio. Oggi, però, con la mia ombra faccio un passo sotto il sole, lì dove le ombre sono più evidenti: voglio guardarla un po’ senza fingere che non sia mia.