Meital, 27 anni, racconta i conflitti nel suo Paese. Oggi in Italia, presso l’organizzazione Rondine Cittadella della Pace, ricuce le relazioni internazionali.
di Meital, studentessa israeliana di Rondine
2002, avevo 7 anni. Mia sorella entra in casa, dopo essere stata fino a dieci minuti prima al centro commerciale, e adesso al telegiornale stanno dicendo che proprio lì si è verificato un attacco terroristico e ci sono dei morti.
2003 Avevo 8 anni. Sono andata a scuola con una maschera antigas. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq e ci viene detto che c’è una minaccia per Israele e che, come nella guerra del ‘91, l’Iraq bombarderà il nostro Paese. Ci siamo seduti in classe e abbiamo decorato la scatola della maschera con degli adesivi: tutto sembrava diverso, ma anche come al solito.
2006, avevo 11 anni. Nei telegiornali si racconta di una guerra con il Libano, e ogni volta che i miei genitori uscivano di casa, avevo paura che non tornassero mai più.
2014, avevo 19 anni. Ero seduta con la mia divisa dell’esercito israeliano in un ufficio del tribunale al confine con la Palestina (è un tribunale dove vengono preseguite persone che pensiamo abbiano un rapporto o che abbiano fatto atti di terrorismo). La mattina arrivavano gli avvocati palestinesi: loro portavano un dolce, e io preparavo loro un caffè.
2018, avevo 23 anni. Ero a lezione di Sociologia della società israeliana. Davanti a me c’era una ragazza araba: io ho pianto, e lei stava zitta.
2022, avevo 26 anni. Ero in Italia. Era una sera tranquilla, un po’ fredda e stavo fuori da un bar. C’era un cane con il suo proprietario, chiedo se posso coccolarlo. Il proprietario mi guarda e dice di sì. Mi sono abbassata e lui dice: «Hai un accento particolare, di dove sei?», «Sono israeliana». La sua faccia è diventata cupa. «Se fosse stato per me, sareste tutti morti».
2022, ho 27 anni, e ogni volta che torno da qualche viaggio e arrivo alla stazione di Arezzo, Issam, il mio amico, che è palestinese e vive a Rondine con me, viene a prendermi.
Sono Meital Wnouk, sono israeliana, sono ebrea, sono una studentessa di Rondine, sono una straniera.
Tutto quello che vi ho detto fino ad ora non lo dico per farvi stare male, o farvi provare compassione per me. Deve farvi pensare, così come ha fatto pensare me.
Siamo molto abituati a correre, la nostra vita passa come un treno, non si ferma mai, ma quando ci sono le fermate ci dobbiamo affrettare per prendere quel treno. Sentiamo ansia perché dobbiamo arrivare da qualche parte, continuare il nostro viaggio.
Prima di arrivare a Rondine, queste fermate di cui vi ho raccontato sono passate velocemente, non mi ero fermata a riflettere. Rondine dà l’opportunità di fermarsi, di guardare indietro e avanti, di guardare il presente, capire dove vogliamo andare e, molto più importante, come vogliamo continuare.
La paura della guerra che esisteva dentro di me quando avevo 7 o 9 anni ha fatto nascere in me un’idea: l’idea, che in questo mondo esistono delle persone che non ci vogliono bene, che sono pericolose, che sono completamente diverse da me.
La gioia e la gentilezza che ricevevo mentre facevo il mio servizio militare, quando entravano gli avvocati palestinesi a fare colazione nel mio ufficio, hanno generato in me una nuova idea: che ci sono tante persone in questo mondo, che io non conosco, che vogliono vivere con rispetto e tranquillità.
La tristezza che ho sentito mentre il mio professore parlava dell’ingiustizia contro gli arabi che vivono in Israele, e il silenzio di questa ragazza araba, mi hanno fatto sentire che ci sono tante cose che io non so, di cui non sono consapevole, e per le quali non posso costruire davvero un’idea, e che quindi devo fare qualcosa per saperne di più, per rendermi più capace di vivere in questo mondo.
Il disagio, la paura, il soffio che sentivo, quando quell’uomo mi ha detto che non pensava che avessi il diritto di vivere, mi ha fatto capire che non sono l’unica alla quale manca consapevolezza, che c’è un vero bisogno di cambiare, di parlare, di affrontare, e che l’ignoranza è il danno più grave che portiamo avanti.
La felicità, la sicurezza, l’amicizia, che sento ogni volta che Issam mi accompagna con la macchina, mi dà la speranza che il nostro mondo potrebbe essere migliore, e che magari con questi gesti inizieremo a cambiarlo. Non è strano che in Italia mi senta più sicura con il mio nemico che con un italiano? Questa è la bellezza di Rondine, è la bellezza di aprire le porte e non rimanere chiusi.
A Rondine ho capito una cosa che forse sembra molto semplice, ma per me è una grande scoperta: quando abbiamo un conflitto con qualcuno si apre la porta di una stanza. Se invece fossimo sempre tutti d’accordo questa porta resterebbe chiusa e noi rimarremmo in questa stanza, sempre con le stesse quattro mura, lo stesso tetto, lo stesso pavimento. Che brutta vita! Immaginate di non uscire mai dalla vostra casa: come sarebbe la vostra vita?
Il conflitto invece ci da un’opportunità, di uscire, di andare a trovare altro, di crescere.
Quando qualcuno la pensa diversamente da noi, allora abbiamo due opzioni: chiudere la porta e dire «ho già abbastanza problemi, ho ragione, basta così», oppure, possiamo fare un passo e uscire dalla stanza, vedere il cielo, vedere la natura, vedere l’altro, prenderci dei rischi, ma dare l’opportunità di trasformare questo conflitto in una cosa che ci aiuta a crescere, sia all’altra persona che a noi stessi.
Non è più facile? Magari no, ma alla fine la nostra vita con gli altri sarebbe molto più ricca. Ricca di culture, di esperienze, di lingue, di punti di vista, di persone, di sentimenti, di crescita. Il conflitto deve esserci, sempre. Se non ci fosse, noi rimarremmo sempre chiusi. Dobbiamo imparare dai conflitti, dobbiamo migliorarci perché la nostra crescita interiore non ha confini.
Non vi dico che cambierò il mondo, e non penso che quest’idea sia una rivoluzione, ma se qualcuno di voi rimarrà anche solo un po’ a riflettere su quello che vi ho detto, magari avrò creato un piccolo cambiamento, e per me è già tanto.