Lorenzo Piolini, intervista al pilota milanese che corre la Dakar

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I B.Liver intervistano Lorenzo Piolini, il pilota milanese che corre in auto la Dakar, "una gara che ti fa soffrire freddo, fame, sonno, sete».
Da sinistra Luca Malaspina, Jacopo di Lorenzo, Michele Fagnani e Lorenzo Piolini al Caravanserraglio di Milano.
I B.Liver intervistano Lorenzo Piolini, il pilota milanese che corre in auto la Dakar, "una gara che ti fa soffrire freddo, fame, sonno, sete».

di Jacopo Di Lorenzo e Luca Malaspina, B.Liver

«Ci si può drogare di cose buone: una di queste è certamente lo sport».

Questa frase l’ha pronunciata Alex Zanardi e ha colpito uno dei piloti italiani che ha partecipato quest’anno alla Dakar. Stiamo parlando di Lorenzo Piolini, grande amante dei viaggi in moto, che ci accoglie nel suo habitat naturale milanese: il Caravanserraglio in zona Navigli. Ci lascia una bella testimonianza di come si vive appieno la gara, in tutti i suoi aspetti.

Come fa un milanese come te ad appassionarsi al mondo della Dakar?

«Ammetto di essere un milanese atipico. Ho fatto tantissimi viaggi in giro per il mondo in moto, in solitaria senza alcun aiuto, su percorsi fuoristrada, in particolare in Sud America. Poi ho iniziato a cronometrare le mie avventure, fino a quando, nel 2021, ho esordito nella gara più difficile e pericolosa al mondo nella categoria delle moto: la Dakar».

Quale preparazione serve per arrivare fisicamente pronti a sfidare il deserto e le dune?

«Normalmente dedico minimo un anno intero per preparare questo grande appuntamento. Per quanto riguarda la preparazione fisica, mi alleno tre volte alla settimana sulle piste da cross e due volte in palestra per aumentare la massa muscolare.

È molto importante far abituare il proprio corpo allo stare in moto, perché tra i chilometri di trasferimento e la prova speciale di ogni tappa, si sta in sella praticamente tutto il giorno. Pensate che ho impiegato sette anni dal momento in cui ho pensato di fare la Dakar a quello in cui ho tagliato effettivamente il traguardo».

Cosa si prova quando si partecipa a una competizione così iconica?

«Premetto che il mio scopo non è quello di stare davanti per vincere: mi piace il fatto di vivere in prima persona la competizione, perché prendi coscienza di essere riuscito ad arrivare alla partenza di una gara così importante.

Quando ho vissuto per la prima volta questa esperienza, ho dovuto abbandonare la mia comfort zone, facendo, ad esempio, più di 800 km di trasferimento in asfalto prima di giungere alla linea ufficiale della partenza.

Detto questo, per me la Dakar è una seconda famiglia, perché ritrovo ogni anno tantissimi amici, compresi i miei idoli di cui avevo il poster da bambino. In questa grande avventura, non sento di competere contro qualcuno, siamo tutti insieme contro un solo avversario: il tempo».

La Dakar è una sfida contro sé stessi, eppure c’è una fratellanza profonda tra i partecipanti: in che modo influenza il viaggio?

«Lo influenza enormemente, nel senso che in primis dobbiamo pensare che quando stiamo gareggiando alla Dakar stiamo correndo al limite, da soli, in mezzo al deserto: questo prevede una componente umana ed emotiva molto importante. Sappiamo di stare rischiando la vita minuto dopo minuto, e questo non può far altro che accendere i sensori umani a 360°.

Il mantra di noi dakariani infatti è “in mezzo al deserto, non si lascia indietro nessuno”, in nessun caso, che tu sia il primo o l’ultimo. Se un corridore ha problemi ti fermi e questa è una regola sacra, anche se fossi tu quello che sta vincendo».

Lorenzo Piolini durante la Dakar

Sviluppandosi sempre di più la tecnologia, c’è il rischio di minare lo spirito più autentico della competizione? Si è già superato questo limite?

«No, affatto: basti pensare che usiamo ancora il foglio di carta e mi porto dietro del nastro adesivo qualora si strappasse e dovessi ripararlo. Non si può parlare di superamento dei limiti, almeno per il momento. Aggiungo che ogni innovazione tecnologica che abbia mai eccessivamente facilitato la competizione, è stata sempre e puntualmente vietata.

Un aspetto che invece sicuramente è migliorato grazie alla tecnologia, è la sicurezza. Basti pensare all’efficienza del Track, un pulsante di cui la moto è dotata per ogni tipo di emergenza. Dopo averlo premuto, arriva un elicottero entro massimo tre minuti. Quindi, a livello delle tecnologie per la sicurezza, non penso neanche che si possa fare di meglio: a me è successo di essere portato via in elicottero d’urgenza, non ho mai visto un soccorso così efficiente in tutta la mia vita.

E tuttavia ai vertici della Dakar sono molto bravi a non inficiare invece, l’aspetto del mantenere la giusta difficoltà e lo spirito originario da cui è nato questo sport».

Sarebbe improprio parlare di rinascita, a seguito del completamento di una Dakar?

«No, non sarebbe né improprio né forzato: anzi, è un’esperienza che fai proprio per quello, perlomeno nel mio caso, nel senso che “vai” veramente. Alla Dakar non c’è niente di bello, non c’è niente di divertente: vai a soffrire, a prendere freddo, fame, sonno e sete; il tutto solo per ritrovare dentro di te una sorta di vigore, di gioia di vivere, di rinascita appunto.

Ricordiamoci che è una competizione dove c’è una percentuale tra l’1% e il 2% di rischio di morire. Pur essendo brutto da dire, poter affermare di essere riuscito a compiere un’impresa dove altri sono morti provandoci, è un punto fondamentale. E a dirla tutta, è l’unica cosa che potrebbe veramente giustificare la partecipazione: perché puoi dire “l’ho fatto”, “l’ho portata a casa”… E perché rifarlo? Proprio per questo. Per il solo fatto di poter dire “io c’ero”».

Che cos’è il fallimento? Come lo si affronta?

«Il fallimento è qualcosa che non ci si può permettere di prendere in considerazione: la Dakar prevede il fallimento, nel senso che ha una percentuale di arrivati del 30-40%, quindi di fatto è normale sbagliare, in questo senso. Ed è proprio per questo che sbagliare non è mai fallire. Tutta la complessità della sfida si potrebbe riassumere nel fatto che non si può fallire e tuttavia bisogna essere pronti ad accettarlo, e sfruttarlo per lavorare sugli errori commessi.

Come affrontarlo? Accogliendo il risultato non ottimale, sapendo di non aver fallito, anzi, di esser stato parte di qualcosa di incredibile in cui l’anno prossimo si tenterà di fare ancora meglio».

I ragazzi del Bullone hanno tre parole che li contraddistinguono: Pensare, Fare e Far Pensare. Quali sono le tre parole di Lorenzo Piolini?

«Ridere, Vivere e Sognare».

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