di Carlo Piano e Renzo Piano
Sto scrivendo in uno splendido giorno d’inizio primavera. Lo so che non c’entra nulla con quello che mi ha chiesto Il Bullone, però quest’aria che sprigiona rinascita la respirano tutte le generazioni, tutte insieme e nello stesso istante. La medesima energia ricarica lo spirito dei ragazzi come degli anziani, e così l’umanità persevera nella sua corsa a perdifiato.
Era di primavera anche quando con mio padre Renzo abbiamo deciso di partire per un lungo viaggio in mare, un periplo, lo definivano gli antichi. Lo raccontiamo nel libro Atlantide edito da Feltrinelli. Lui parlava e io scrivevo. Un po’ come fece Rustichello da Pisa con Il Milione, ma lui non era il figlio di Marco Polo. E poi tra loro non c’era quella che i cugini francesi chiamano «fossé des générations», il divario generazionale in italiano, ma fossa rende meglio l’idea.
Salpammo a bordo di una nave oceanografica della Marina militare dal porto di Genova alla ricerca della bellezza, che non è un concetto astratto. La bellezza è utile e non una chimera romantica, la pensano così solo gli sciocchi. La bellezza aiuta a rendere la gente migliore e a cambiare il mondo, questo sosteneva Dostoevskij che sciocco non era. Un tesoro transgenerazionale da passare in eredità.
Cosa cercavamo oltre la linea dell’orizzonte? Quello a cui hanno sempre aspirato tutte le generazioni dai tempi di Platone in avanti: Atlantide, che è la città perfetta perché ospita una società perfetta. Questa è la sua bellezza, la sua «kalokagathia», preziosa e inafferrabile. In qualche abisso oceanico deve pur nascondersi.
Da un viaggio si torna diversi da come si è partiti, ed è successo anche a noi. Si gettano dei ponti sulla «fossé» che ne uniscono le sponde. Sempre che si viaggi senza la fretta di giungere a destinazione, ma imparando da ogni situazione, ammirando ogni luogo e lasciandosi penetrare dalla cultura, dalle sorprese e dagli incontri. Come fece Ulisse.
Saranno state le avventure vissute, i tempi lunghi e silenziosi della navigazione, ma i conflitti che minano il rapporto tra padre e figlio si sono stemperati fino ad annullarsi. Questo è avvenuto per me, ma credo anche per lui, che si è aperto lasciandomi rovistare nei suoi cassetti segreti e ammettendo i pentimenti di una vita. Chiunque lo conosca, sa che fargli riconoscere un errore è impresa sovraumana. Con me lo ha fatto.
In mare si raccontano cose che sulla terraferma non si dicono, come avviene in un confessionale. Ci si confida. Forse perché non si guarda l’orologio. I ritmi decelerano, si alzano gli occhi al cielo e si abbassa il tono della voce. Siamo tutti sulla stessa barca non è solo un modo di dire. Insomma, ci siamo ritrovati o forse trovati per la prima volta. Recriminazioni e distanze, che fossero familiari o d’età, sono come d’incanto sparite. Abbiamo finito per capirci.
Anche lui ha vissuto i traumi e le sfide di una società che cambiava. Così come è successo a me e come ai ragazzi che sono impegnati a fabbricarsi una speranza di futuro. L’era in cui abbiamo in sorte di vivere, è quella della trasformazione più rapida che la storia ricordi: una rivoluzione geopolitica, di costume, di abitudini, di scoperte scientifiche.
I tatuaggi costituiscono lo scrigno dei ricordi, i filosofi non stanno più in una botte ma nello schermo dello smartphone. Prima che me ne dimentichi, anche questo c’entra poco ma mi piace: una volta sulle navi genovesi l’equipaggio chiamava il comandante «baccan», padre. Era lui il solo a conoscere la rotta, l’intera ciurma gli si rivolgeva con riverenza: «sciü baccan», signor padre.
La società, la storia, la gente, le comunità evolvono, talvolta attraverso rotture brusche e conflittuali. Ogni generazione vuole divorziare dai suoi predecessori: brama nuovi simboli, nuovi miti a cui aggrapparsi, nuovi spazi da abitare.
Così è stato per mio padre e il Beaubourg, che è un edificio figlio del Sessantotto e della rivoluzione studentesca. Era il momento di reagire all’idea che i luoghi culturali fossero destinati a un’élite, dovevano essere aperti a tutti. Beaubourg ha interpretato l’esigenza di quella generazione ribelle. L’architettura non provoca i cambiamenti della società, ma li interpreta e dà loro una forma costruita. Così come fanno la musica, la letteratura, la moda e tante altre cose.
C’è poi da dire che la «fossé» non è certo un’esperienza esclusiva dei post-millennials. Durante le infinite ore trascorse in mare cercando Atlantide, mio padre mi ha raccontato del suo di papà, mio nonno Carlo che si chiamava come me. Era un classico genovese, riservato e taciturno. Aveva una piccola impresa edile e in cantiere portava sempre la giacca e il cappello in testa, talvolta anche la cravatta. Eleganza a parte, era sempre a lavorare nella polvere insieme agli operai. Un costruttore, ma senza la laurea che sognava per il suo secondogenito: un futuro da ingegnere.
Quando il giovane Renzo gli comunicò che voleva fare l’architetto rimase sorpreso, anzi contrariato, anzi quasi s’inalberò. Un po’ come quando io dissi a mio padre che mi piaceva il giornalismo. Forse è meglio che taccia e che lasci direttamente la parola a Renzo: «Papà sognava che suo figlio diventasse costruttore con la laurea, cioè un ingegnere. Sennonché, essendo bastian contrario per natura, volevo andare via di casa. Liberarmi, anche se in famiglia stavo bene. Crescere con il mare davanti istiga alla fuga. Allora decisi di studiare Architettura e di lasciare Genova, perché le facoltà più vicine erano a Firenze e a Milano.
Mio padre prese questo annuncio come un incidente. Mi guardò e disse: “Ma come mai vuoi fare l’architetto se puoi fare il costruttore?”. Non capiva, gli sembrava riduttivo. Lui, in fondo, era architetto, ingegnere e costruttore, tutto assieme, a modo suo. Alla fine, fu contento della mia scelta, ma ricordo ancora quando lo portai sul mio primo cantiere. Era una tensostruttura. Lui fumava la pipa in silenzio e mi osservava armeggiare. Quando lo riaccompagnai a casa in auto, gli chiesi cosa ne pensasse. Rispose semplicemente: “Mah”. Lo ricordo come fosse ieri: mah. Forse si stava domandando se quel trabiccolo potesse stare in piedi».
Le incomprensioni hanno sempre diviso le generazioni, anche sul modo d’intendere il lavoro. C’è una frase di Luciano Lama (tra le altre tante cose, partigiano e sindacalista) che mi è rimasta impressa: «Bisogna lasciare il passo alle nuove generazioni: anche perché se non glielo lasci se lo prendono comunque».
Ogni generazione ha i suoi buoni motivi per cambiare e migliorare la società. Libertà, emergenza climatica, lotta alla discriminazione e alla disuguaglianza di opportunità che mancano, fragili prospettive lavorative e finanziarie. L’importante credo che sia continuare – testardamente – a cercare Atlantide, ovunque si trovi.