di Riccardo Russo, B.Liver
La B.Liver story di questo mese è quella di Riccardo, 21 anni, affetto da una patologia rara. Un ragazzo che si ritrova a combattere contro qualcosa dai contorni confusi anche per i medici stessi: "siamo circa una trentina sul pianeta", dice. Senza cure all'orizzonte, ma solo la certezza e la paura di un decorso della malattia. E poi la voglia di vivere, la paura di morire, la necessità di non vivere come malato e la scala di grigi ritrovata tra la "sanità" e la "malattia".
Salve.
Sono un ragazzo di ventun anni affetto da una patologia genetica rara. Molto rara. Siamo in circa una trentina sul pianeta. Non si intravedono cure all’orizzonte, per cui il mio stato di salute dipende unicamente dal decorrere della malattia. Il nome non è né estetico né importante, per cui lo ometterò.
Amo l’incertezza. La amo così tanto che non mi interesso della mia malattia. La mia genetista ha scritto sei pagine con la descrizione e le possibili conseguenze che questa mutazione può portare: non le ho mai lette, ovviamente.
Non so se sia un bene o un male. A lungo la mia patologia non mi ha sostanzialmente dato problemi, per cui mi era facilissimo ignorarla. Lei non esisteva, io non ci pensavo.
“A lungo la mia patologia non mi ha sostanzialmente dato problemi, per cui mi era facilissimo ignorarla. Lei non esisteva, io non ci pensavo. “
– Riccardo Russo
Ogni tanto, però, ero costretto a fare visite di controllo, per me erano un vero spasso: adoravo guardare i dottori grattarsi la testa davanti al mio caso e sparare le solite due o tre malattie generiche, come per pulirsi la coscienza davanti all’ignoranza. Poi, a sedici anni hanno cominciato a parlarmi di versamento pleurico, di interventi e vedevo mia madre piangere.
Nessuno si metteva a spiegarmi cosa avessi veramente, per cui io ho cominciato a fabbricare il mio castello: ero morto. Era finita, a sedici anni non avevo più un futuro, per cui ogni mio sforzo sarebbe stato inutile. Pochi mesi dopo, sono stato operato: sono entrato in sala operatoria dopo aver ritardato l’intervento leggendo un giallo della Christie, perché volevo almeno conoscere il colpevole prima di andarmene. Dopo l’intervento i test genetici mi hanno informato da cosa effettivamente fossi affetto e quanto particolare fosse la mia condizione.
Eppure sono qui a parlarne, quindi sono sopravvissuto. Non era male questo stato mentale, pensai. Quante responsabilità devi prenderti se sei già morto? Nessuna. Vivere da morto è un’esperienza fantastica perché cerchi di goderti solo le esperienze positive e non hai pressioni per il futuro, tanto prima o poi non ci sarai più. Voi direte che questo è un destino che accomuna tutti noi, ebbene, solo adesso posso dirvi che avete ragione: la mia risposta era una visione perversa della morale stoica che mascherava il terrore naturale di un adolescente.
“la mia risposta era una visione perversa della morale stoica che mascherava il terrore naturale di un adolescente.”
-Riccardo Russo
Ho vissuto col freno a mano tirato fino a vent’anni, con la costante certezza che prima o poi qualcosa di brutto mi sarebbe capitato e ci avrei lasciato le penne: ho dovuto effettivamente attendere un bel po’ ma poi qualcosa d’impatto è realmente accaduto.
L’anno scorso, a seguito di un intervento leggero, ho avuto problemi coagulativi e un’embolia polmonare, che nel mio castello di supposizioni suonava tanto come il gong finale. Voi capite che un’embolia polmonare a chi ha già una funzione respiratoria sotto il 40% suona tanto come una mazzata.
Era giunto il momento: per un mese sono stato pazientemente steso sul letto aspettando di morire. Invece sono stato dimesso e mandato a casa, ma ciò non mi bastava, dovevo essere sicuro di non essere illuso dai medici. Voi capite che nel quadro generale di una malattia rara che ha ancora aspetti sconosciuti, non riesco ad avere certezze anche circa una guarigione, e tutt’oggi vivo il ricordo delle visite fatte da ragazzino.
Poche settimane dopo presi il Covid, altra occasione per buttarsi via aspettando l’inevitabile, ma sono nuovamente guarito. Sono rimasto vigile per mesi, guardandomi allo specchio e dicendo al mio corpo: «Beh? Che si fa? Posso contare su di te o ti stai pian piano riducendo in pezzi?». La paura di una ricaduta mi ha fatto correre due volte al pronto soccorso a vuoto, senza che ve ne fosse poi una reale necessità: la mia malattia da compagna silenziosa era diventata una macchia nera pronta a cancellarmi con ogni mezzo circolatorio, linfatico, o chissà che altro.
“la mia malattia da compagna silenziosa era diventata una macchia nera pronta a cancellarmi con ogni mezzo circolatorio, linfatico, o chissà che altro”
-Riccardo Russo
Forse sono guarito: dico forse, perché l’anticoagulante non me l’hanno ancora tolto e dico forse, perché da quando lo prendo soffro saltuariamente di capogiri, dolori muscolari strani e la mia funzione respiratoria è peggiorata (per questo è meglio precisare che 3 mesi di immobilità quasi totale non sono esattamente funzionali).
Da forse-guarito però ho capito una cosa: è stupido non mettersi in gioco. Credo sia veramente idiota l’autocensura preventiva dalle sfide quotidiane, nascondendosi dietro una malattia o una fobia. Il mondo che abbiamo costruito presenta troppe possibilità per chiudersi in una bolla che inevitabilmente è limitata e limitante.
Ho una paura folle del decorrere della mia malattia. Questo perché non ricordo con precisione le possibili conseguenze che mi aveva esposto la genetista, e non voglio leggere quelle riportate sul foglio per una duplice ragione: non voglio rallegrarmi leggendo notizie che interpreterei come false-positive, men che meno deprimermi davanti a paroloni che non conosco.
Non riesco ad accettare di vivere come malato e non lo voglio intendere come la paura di una condanna, ma come un limite personale, soprattutto se gli effetti dovessero poi risultare visibili all’esterno, perciò ne ho paura, la vedo ovunque: in un’unghia viola, un segno sul petto, un formicolio alla gamba.
Potreste pensare che tutto ciò sia contradditorio: ma come, non hai paura di morire e hai paura della malattia? Certo che ne ho. Come si fa ad avere paura della morte, voglio dire, ancora? Ormai dovrebbe essere debellata dopo secoli e secoli di meditazioni. Diverso è il discorso di una malattia fortemente invalidante.
Avreste più paura di un proiettile in testa o di essere costretti a farvi cambiare le mutande da vostro fratello? Per anni ho continuato a interpretare le categorie di «sani» e «malati» come bianco e nero: vi era un confine entro il quale perdevi lo status di persona sana ed entravi marchiato nel terribile limbo della gente che deve lottare anche solo per sopravvivere. Oggi vi direi che ho scoperto l’esistenza del colore grigio.
“Per anni ho continuato a interpretare le categorie di «sani» e «malati» come bianco e nero: vi era un confine entro il quale perdevi lo status di persona sana ed entravi marchiato nel terribile limbo della gente che deve lottare anche solo per sopravvivere.”
-Riccardo Russo
L’incertezza del mio stato di salute attuale continua a fare capolino nelle giornate: cosa accadrà quando mi toglieranno l’anticoagulante? Scompariranno i mal di testa? Si accentueranno? L’embolia era figlia dell’intervento o del mio deficit su un fattore sanguigno?
Ora come ora mi ritrovo solo a pensare di cercare di costruire un futuro libero almeno in parte dai condizionamenti della mia malattia, assumendomi questa volta la responsabilità del rischio e di poter fallire dicendo: «Sì, è colpa mia».